Cultura e Spettacoli

Ammaniti è una coltellata al cuore della letteratura

Le mappe urbane parioline dei racconti riuniti in Il momento è delicato ci fanno riscoprire la magia del genere più sottovalutato dagli editori

Ammaniti è una coltellata al cuore della letteratura

Squaderno Il momento è delicato (Einaudi, pagg. 367, euro 17,50) e mi ritrovo personaggio, con nome e cognome, in forma di killer-ghepardo, «un ibrido di carne e acciaio» che, con una mitraglietta Uzi in mano, dilania Betta, la ex dello scrittore Niccolò Ammaniti, nello specifico co-protagonista di questo racconto e autore del libro su citato.
Allora, mi dico, non posso che fare la mia parte, cioè quella del «killer», io che non sono stato mai un cannibale ma che Nic Ammaniti lo conosco da prima del 1996, anno appunto dell’antologia Gioventù cannibale (Einaudi). Eravamo in una trasmissione televisiva, Niccolò era vivo, elettrico, gli altri morti. Allora per spiegargli, attraverso un oggetto, la linea inossidabile che mi separava dai cannibali, estrassi dalla tasca un coltello còrso: la lama a ciuffo di Upupa, il manico di madreperla. Vidi Ammaniti superelettrico. Oggi che rileggo i suoi racconti ormai stagionati come un film di Tarantino, tipo Jackie Brown, capisco meglio che l’intuizione del coltello per suggerire il «racconto», non era una scemenza.
Intanto questi pezzi (mi si scusi la sciocchezza), come l’intera maniera pulp, a distanza di tempo si lasciano interpretare con una libertà che in origine non si aveva: è bello infatti giocare a scremare i difetti dalle spinte ancora propulsive. Come è bene dire subito che Il momento è delicato è una astuta operazione di marketing. Ma questo, s’intenda, non sottrae nulla alla bravura dello scrittore, né è un voler attizzare il rogo, anzi, dirò come una paraculata (direbbe Ammaniti) può innescare una ripresa, una crescita, stavolta non economica bensì letteraria. Procediamo con ordine.
Niccolò Ammaniti non scrive (propriamente) dei racconti. Verga pagine che rassomigliano a mappe urbane, più estese e migliori: Giochiamo?, oppure Fa un po’ male; altre invece sembrano abbozzi o «gabbie», come quelle dove sono rinchiusi gli animali dello Zoo di Roma. In realtà lo scrittore dei Parioli è il tenutario del Giardino Zoologico dei Parioli. Ammaniti, da quel quartiere che ha perduto il suo Dna «pariolino», continua comunque a tessere i fili delle storie su Roma, slargata dal centro alle borgate, come se la vita e il suo quotidiano avvenissero nello Zoo tra ciccioni, transessuali, serial killer che si scambiano di ruolo con i cani (tanti), babbuini, pappagalli, maiali, pesci (tanti, ma meno dei cani), cobra, bisce e «alieni» che è la parola vezzo, il tic più ripetuto. Così accade che i Parioli si dilatino e invadano le borgate, come l’Hinterland va ai Parioli (dai Castelli, agli agglomerati della Pontina) fino a quando possiamo sentenziare: «Tutto il mondo è Parioli». Infatti come ci fu il sesso e la borghesia per Moravia, le borgate per Pasolini, via Merulana per Gadda (ad esempio), così esiste un motore di ricerca romano per Ammaniti: i Parioli e il suo Bioparco che coincidono sempre.
Non è vero che «il racconto è la passione di una notte», come recita il prologo. Il racconto è un oggetto, come il coltello còrso, che non si ossida mai. Prendete infatti i combattimenti astutissimi e per niente «poetici» dei Sillabari di Parise; la tenuta oceanica e morbosa di un racconto come L’angelo del Liponard di Tobino; rileggete la furia espressiva di Domenico Rea, i colpi di spada e fioretto dell’invincibile Giovanni Verga, la follia pura di Maupassant, le revolverate degli ussari di Puškin, il cinismo romantico della Ortese, i vuoti di Carver...
Passo in rassegna le vecchie glorie per rafforzare la convinzione che il racconto è una parete verticale che disprezza le intemperie, dunque i cambi di stagione. Ecco perché è un bene (a loro insaputa?) che degli editori tirino fuori dai cassetti di uno scrittore pluridecorato un libro di racconti. È uno spot alla letteratura e ai bravissimi scrittori di storie brevi. Comunque Il momento è delicato rivela un sentimento di paura che ci scompensa, ci confonde verso confini dove il pulp muore e si desta un’altra cosa incomprensibile. La paura è il cibo che ci propina a colazione, pranzo e cena Ammaniti. Ma non è un sentimento psicoanalizzabile, uguale alla solita paura. È altro (altro che risate). Forse è proprio quella serie di «gabbie» dello Zoo dove noi rischiamo di essere reclusi, se non lo siamo già. Questa paura rassomiglia a un bambino che va in giro con un topo morto sul palmo della mano. Ma è più una questione insondabile che metaforica. È la cicatrice o firma.

Allora, Ammaniti: non posso che augurarti altri secoli di paura.

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