Cultura e Spettacoli

«Andreotti gran censore? Solo propaganda del Pci»

Un primo piano di Giulio Andreotti
Un primo piano di Giulio Andreotti

Né Gobbo, che ordisce i delitti italiani, né Topo Gigio, come ne Il Divo di Sorrentino: orecchie enormi e tic inverosimili. Né, tantomeno, stolido Mani di Forbice, stando alla vulgata, che dipinge Giulio Andreotti come «il fucilatore del cinema italiano». Niente di tutto ciò: Giulio Andreotti, nel IV governo De Gasperi sottosegretario con delega allo spettacolo, volerà sulla Mostra del cinema come l'angelo salvatore, non sterminatore, delle pessime sorti della cine-industria italiana nel dopoguerra. A liberare l'immagine inedita del discusso politico classe 1919, scomparso l'anno scorso, è il docufilm del filologo ed esperto di cinema Tatti Sanguineti, in coppia con Pier Luigi Raffaelli, Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino (sezione «Classici»).

Tatti Sanguineti, com'è nata l'idea di un film su Andreotti?

«Lavorando a un libro su Rodolfo Sonego, sceneggiatore di Alberto Sordi dagli indiscussi titoli politico-militari-resistenti: a Belluno fu capo della brigata partigiana Garibaldi. Pure un comunista come Sonego manifestava perplessità su come fossero andate le vicende del cinema italiano. Mi disse: “Non avete capito niente”, alludendo ai critici del '68 e alla generazione ideologizzata. “Se vuoi capire, devi andare da Andreotti: ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila”. Così inizia la mia avventura».

Cinque anni per girare il film. Il nome Andreotti spaventava?

«Quando lo proposi alla Cineteca di Bologna, ne ebbi sguardi di scherno, di quelli con cui si compatisce un deficiente. Andai da Giancarlo Leone, alto papavero Rai: altro sguardo di compatimento. Tra sondaggi e abboccamenti, alla Direzione dei Beni Culturali incontrai Gaetano Blandini, il cui padre era uomo di Scelba. L'idea gli piacque e mi stanziò un budget, con appalto all'Istituto Luce: 84.000 euro e 40 ore d'intervista con l'uomo più chiacchierato d'Italia… l'intervista doveva essere documentale al massimo, tra foto di scena, cinegiornali Luce e atti parlamentari».

Dove e come Andreotti fu «rivoluzionario», rispetto al cinema?

«Nel '45, insediato da poco al ministero, abolito il fascista cine-giornale Luce, fa approvare la Settimana Incom come cine-giornale di Stato. Si accolla la grana di sfrattare gli sfollati da Cinecittà, così gli studi tornano a lavorare. Liquida le pratiche pensionistiche del cinema di Stato, annullando le funzioni del vecchio Minculpop. Fa riaprire le sale parrocchiali. Nel '49 vara una legge per frenare la colonizzazione del cinema Usa, finanziando i film con la tassa sul doppiaggio».

Com'era Andreotti, di persona?

«Simpatico. Gli piaceva il cinema fiammeggiante, tipo Duello al sole . Nel 1931, adorò Dr. Jeckyll di Mamoulian, al punto di vederselo tre volte. Gli portai un VHS del film, per sollecitare la sua memoria: erano passati 50 anni, da quando s'era occupato di cinema. Ai tempi di De Gasperi, aveva 28 anni e una moglie giovane. La domenica, in compagnia della moglie e di Giulio Onesti e consorte, vedeva i film al ministero: lasciava sempre istruzioni precise ai proiezionisti».

Come nasce l'immagine di un Andreotti baciapile e censore occhiuto?

«Dalla propaganda PCI. Da gente come Alicata, Pajetta, Aristarco, che confusero Andreotti con Luigi Gedda. Andreotti era un trattativista: transava su una tetta, su un culo, bocciava una battuta politica. Nato povero, figlio d'un maestro, aveva un rispetto estremo dell'investimento capitalista. Fece riaprire il festival di Venezia, nel '47 e nel '48 lo portò al Lido. Era il povero che odiava Visconti, antropologicamente diverso da lui, ma che rispettava i produttori. La propaganda continua».

In che senso?

«Nel film di Veltroni su Berlinguer c'è la sequenza di Andreotti, che di Ambrosoli dice: “Se l'è andata a cercare”. Era malato e la troupe di Minoli rubò quell'immagine, assaltando un uomo colpito da ictus. Una superporcata».

Al Lido da regista e da attore nel film Belluscone , frequenta Venezia dal 1969. Com'è diventata la Mostra?

«Dormivo a Cannaregio e al Palazzo del Cinema, il portiere ebbe pietà di me, che dovevo riprendere la barca alle 2 di notte: passai lì la nottata. Ricordo code davanti alla sala Volpi, nel'69, per beccarsi quasi sempre bidoni. Baroni come Aspesi, Kezich e Biraghi, respinti perché nessuno sapeva che facce avessero: s'era spezzato l'anello di congiunzione. Però Aldo Moro si rese garante della proiezione de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Nel '79, Lizzani, all'Excelsior a sue spese, dette a Venezia la dimensione di massa. “Sai, ho vissuto a Mosca”, mi disse.

Oggi si fatica a premiare il talento solitario oltre la lobby».

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