Cultura e Spettacoli

Caro Indro, chissà cosa diresti della "Storia d'Italia" di oggi

Sarebbe interessante leggere Montanelli alle prese con Monti, Grillo, Ingroia e Letta...

Caro Indro, chissà cosa diresti della "Storia d'Italia" di oggi

Sono trascorsi dodici anni dal giorno - 22 luglio 2001 - in cui Indro Montanelli se n'è andato. In questo frattempo ho raggiunto il suo stesso traguardo anagrafico, e sempre mi pongo una domanda banale ma importante. Cosa farebbe, direbbe e penserebbe Indro se fosse ancora con noi? È che Montanelli non lo sentiamo come un grande del passato, lo sentiamo come un contemporaneo. Se ne ha dimostrazione anche nel successo che hanno i suoi libri - a cominciare dalla Storia d'Italia - quando vengono riproposti. Anche nelle versioni avveniristiche dell'ebook. Montanelli è morto ma non è invecchiato.

Di altri giornalisti che furono molto popolari è quasi impossibile oggi rileggere gli scritti (faccio una doverosa eccezione per Paolo Monelli). Non tanto per l'impronta littoria d'alcune pagine - alla quale nemmeno il primo Montanelli potè sottrarsi - quanto per un che di polveroso e manieristico nello stile, nel linguaggio, nell'approccio ai fatti. Montanelli no: resta fresco, pungente, irridente. Il monopolista d'una prosa che conquistava lettori d'ogni estrazione sociale e culturale e che veniva, oltre che da uno straordinario talento, da studi seri.

E allora domandiamocelo. Quali giudizi darebbe Montanelli dell'Italia di Mario Monti e di Enrico Letta dopo aver descritto - e amabilmente o non amabilmente fustigato - le Italie di De Gasperi, di Fanfani, di Moro, di Craxi, di Berlusconi? Ho, in proposito, molti dubbi e una certezza. La certezza è che gli eventi che si sono succeduti dopo l'addio alla vita non avrebbero modificato neppure un po' la desolata diagnosi delle cose d'Italia da Montanelli tracciata nell'ultimo volume - da me pluricitato - della nostra lunga fatica a quattro mani. Annunciando la rinunzia a proseguire la narrazione storica - esortò me a proseguire da solo, ma me ne guardai bene - Montanelli spiegò perché non credeva più nella Patria, che era ormai soltanto il rimpianto di una patria. Ed è straordinaria la preveggenza con cui Montanelli pronosticò l'attualità, il declino inarrestabile e inerte d'un Paese che sembra schiumare di rabbia ma che finisce sempre per adagiarsi in una rassegnazione estenuata.

«Sangue - parola di Indro in un affascinante poscritto - non ce ne sarà. L'Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto a uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella terra di morti, abitata da un pulviscolo umano, che Montaigne aveva descritto tre secoli or sono. O forse no: rimarremo quello che siamo, un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita». Un necrologio, più che una profezia. Non che a Indro, se potesse ancora allietarci con i suoi articoli, mancherebbe materiale su cui esercitarsi. È vivo, vegeto e attivo Silvio Berlusconi, e già questo garantirebbe a Montanelli ampie possibilità di liberare al meglio la sua ironia e i suoi sarcasmi. Ma non s'illudano gli altri mediocri attori della scena politica (nel bene e nel male il Cavaliere tutto è fuorché mediocre). Mi diverto a immaginare i termini, e le trovate controcorrenziali, con cui Montanelli s'occuperebbe di Bersani e dei suoi detti caserecci, o dell'arruffone Beppe Grillo, o del serioso professore bocconiano. Per non parlare dell'ex pm Ingroia che sembra fatto apposta per offrire spunti comici anche ai molto meno dotati di Indro.

Mi si può osservare che nell'ultimo Montanelli l'antiberlusconismo prevaleva sull'umorismo. Lo so. Ma nessuno riuscirà mai a convincermi che Indro resisterebbe, fosse vivo, alle tentazioni di sberleffo che i personaggi citati, e tanti altri non citati, gli offrirebbero incessantemente. Avrebbe un'unica grave difficoltà, quella di sentirsi solo. La polemica politica non s'è mai distinta - Togliatti docet - per levità epigrammatica. Ma in quei duelli pur se all'ultimo sangue trovava posto un certo rispetto per l'avversario. Indro aveva come arma il fioretto, e lo stesso si può dire per il comunista Fortebraccio, approdato alle pagine rosse dell'Unità dalle pagine bianche del Popolo democristiano. È strano, ma in una Italia che non affronta più i dilemmi drammatici d'un tempo - come quello tra l'Occidente e il Comunismo; adesso si discute di euro e di spread - il linguaggio delle dispute si è incattivito. Niente più fioretto, tutti impugnano la clava. A parole beninteso, lo scontro vero non è affar loro. Caro Indro, che bello se fossi ancora con noi.

A patto che non munissero anche te d'una clava.

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