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Le carte perdute del Duce? L'arma per riavere Trieste

Il gruppo di partigiani che sequestrò le borse di Benito se le vide sfuggire di mano. Continuò però a cercarle anche negli anni '50. Erano una risorsa diplomatica

Le carte perdute del Duce? L'arma per riavere Trieste

Non vedo, non sento, non parlo. Il gioco delle tre scimmiette sembra adattarsi perfettamente alle amnesie e alle ostinate reticenze dei protagonisti della fine di Mussolini, che hanno lasciato intendere di non sapere nulla dei carteggi esteri in possesso del Duce. Forse perché avevano qualcosa da farsi perdonare.

I documenti inediti raccolti dallo storico Alberto Maria Fortuna, inclusa la corrispondenza autografa intercorsa tra Pier Bellini delle Stelle «Pedro», comandante della 52ª Brigata Garibaldi che catturò il dittatore, e l'avvocato fiorentino Piero Bruno Puccioni, la spia eccellente che nel teatro dei fatti di Dongo gestì le più spregiudicate manovre di intermediazione politica, aprono scenari interpretativi a dir poco sensazionali. Puccioni, uomo del Sim, il servizio segreto militare, ma anche sponda italiana degli americani, era un gerarca fascista rapidamente riciclatosi come soggetto promotore della ricollocazione internazionale del nostro Paese. Ancora nel febbraio del 1945, Radio Londra, in una sua trasmissione, inserì Puccioni nell'elenco delle più pericolose personalità fasciste da eliminare. Due mesi dopo, lo incontriamo nella veste di regista di molte partite pericolose svoltesi dopo l'epilogo sanguinoso di Dongo, come la gestione dei carteggi sottratti a Mussolini, da lui stesso definiti le «nostre documentazioni politiche e diplomatiche più gelose».

Nel 1947, il comandante Bellini delle Stelle, e il suo braccio destro, Urbano Lazzaro «Bill», dichiararono, sotto giuramento, che non vi era alcun epistolario Duce-Churchill, tra i materiali sottratti al capo del fascismo. Puccioni, invece, ha lasciato scritto che proprio quella corrispondenza venne esaminata, nella sua villa di Domaso, nel corso di almeno due riunioni notturne, alla presenza, tra gli altri, proprio di «Bill» e «Pedro».

Ma non è tutto. Tra la fine degli anni Quaranta, e il principio dei Cinquanta, Bellini delle Stelle, su sollecitazione dello stesso Puccioni, diede la caccia alle carte che nel frattempo avevano preso il volo. Abbiamo raccontato, in un precedente articolo, che, durante una missione a Firenze, svoltasi nel maggio del 1945, il partigiano «Pedro» avrebbe portato con sé una scrematura significativa dei materiali duceschi. A che scopo? Quasi sicuramente, per trattarne la cessione agli inglesi.

Operazione che dovette essere andata in porto, se, nel 1949, Puccioni pensò di premere proprio su Bellini delle Stelle per recuperare almeno una parte di quei carteggi scottanti. A quale scopo? Una tale operazione poteva avere un unico obiettivo: sostenere la posizione dell'Italia, nelle partite internazionali che si stavano giocando in quella fase, con l'adesione del nostro Paese al Patto Atlantico. In cambio del suo profilarsi quale alleato di ferro dell'America, l'Italia avrebbe potuto rivendicare il ritorno di Trieste sotto la propria sovranità. Il possesso della corrispondenza estera del Duce, in tale senso, avrebbe fornito al nostro Paese un'arma di pressione in più.

La corrispondenza tra Bellini e Puccioni, solo ora venuta alla luce, è di per sé eloquente. In una lettera del 7 maggio 1949, «Pedro» scrive al legale fiorentino che «il carteggio \ pare sia andato a chi già supponevamo, ma seguendo tutt'altra via da quella che ho dapprima seguito». Poi aggiunge: «Le ricerche sono difficili: anche perché non ho la tranquillità necessaria per occuparmi della faccenda con la dovuta intensità... Di documenti né io né Bill abbiamo più nulla. Qualcosa si potrebbe avere sulla questione del tesoro, ma nulla di importante. Per la faccenda del carteggio ho seguito finora una traccia, che purtroppo avrebbe messo in cattiva luce una persona che credevamo fidata e che riteniamo nostra amica. Non so se sia giusta e penso che sarà difficile riuscire a sapere qualcosa di preciso, e d'altra parte mi dispiacerebbe per quella data persona. Da pochi giorni però, a conclusione di altre, diciamo così, indagini, son piombato su un'altra traccia che forse può portare a nuove conclusioni». Parole, già in sé compromettenti, per un individuo che, due anni prima, aveva giurato sulla non esistenza di un epistolario Duce-Churchill!

Il successivo 13 giugno, rispondendo alle pressioni dell'uomo del Sim, l'ex comandante partigiano così si rivolge a Puccioni: «Caro P., le cose stan sempre allo stesso punto. Son sempre in attesa che quei signori di cui ti parlai la volta scorsa si decidano a combinare qualcosa. Avevano promesso mari e monti. Non so se questo loro traccheggiare dipenda dal fatto che, nonostante le loro chiacchiere non hanno nulla di positivo in mano, o se abbiano pensato che io nell'affare non c'entro e se lo vogliano trattare loro stessi escludendomi. Se è così non so cosa fare e non li posso costringere a cedermi, almeno in parte, roba loro. Io li secco più spesso che posso, ma loro dicono sempre che non se ne sono ancora potuti occupare e rimandano sempre la conclusione. Cosa posso farci? Non so quindi cosa dirti. Ho paura però che se si sta ad aspettare quella roba, non se ne farà mai nulla. Bisognerebbe forse cercare di concludere con quello che si ha già in mano e che praticamente già sai. Guarda tu cosa fare e sappimi dire qualcosa. Ti ringrazio molto per quello che fai e spero di non farti perdere troppo tempo inutilmente».

Trascorsi alcuni mesi in affannose ricerche, Il 20 dicembre successivo Bellini riferisce a Puccioni una notizia interessante. Tra le carte intercettate, vi sono lettere di una certa importanza, come una missiva di ringraziamento scritta dalla Petacci a Hitler dopo la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso, nel settembre del 1943. La corrispondenza Bellini-Puccioni proseguì fino al 1952, ma la caccia ai dossier mussoliniani ebbe esiti infruttuosi. Chi li aveva ricevuti non era disposto a cederli nuovamente, a nessun costo.

(3- continua)

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