Cultura e Spettacoli

La controstoria della destra dai "repubblichini" alla Lega

Fino agli anni Novanta lo scontro era tra fascisti e antifascisti. Poi dal 1993 divenne la "guerra" tra la sinistra e Berlusconi...

La controstoria della destra dai "repubblichini" alla Lega

Esce domani il nuovo libro di Giampaolo Pansa dal titolo La destra siamo noi (Rizzoli, pagg. 360, euro 19,90): si tratta di una «controstoria» italiana dalla destra neofascista e nostalgica fino a oggi, da Scelba a Salvini. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo uno stralcio dell'introduzione.

Per molti anni, la parola «Destra» ha puzzato di cose vecchie, di storie del passato, di personaggi tramontati da tempo, di comparse con la pretesa di occupare la scena. Nell'Italia uscita dalla guerra civile, evocava un mondo di fascisti sconfitti, di neofascisti minoritari, di gruppi e gruppetti che agitavano bandiere più o meno nere, ma non contavano nulla. Indicava un'Italia senza potere e senza futuro. In grado soltanto di dedicarsi al culto di un grande scomparso: il regime di Benito Mussolini. Un cadavere che l'antifascismo riteneva di aver seppellito per sempre, dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale e poi nel mattatoio del 1943-45.

Se ripenso a quando avevo vent'anni, nella mia piccola città della provincia piemontese era di destra soltanto qualche reduce della Repubblica sociale e pochissimi giovani che si dichiaravano fascisti, pur sapendo poco dei loro antenati. Immagino ci sia stato almeno un consigliere comunale eletto nelle file del Movimento sociale. Però mi accorgo di non rammentarne il nome. Da cane sciolto e allergico a qualsiasi militanza, mi consideravo di sinistra. Tuttavia leggevo anche autori ritenuti di destra, come Giovanni Guareschi, o settimanali come Il Borghese , ma soltanto perché provavo una forte curiosità per chi era lontano da me. Lo facevo soprattutto per incitamento del mio maestro libraio, un liberale avveduto, che mi spingeva a uscire dal cerchio stretto della cultura legata al Pci, in quel momento imperante.

Mentre scrivo, mi rendo conto di aver conosciuto bene soltanto un neofascista a pieno titolo. Era il barone Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse. Aveva tre anni più di me, era nato a Vercelli ma abitava nella nostra città. Un giovane aitante, cortese, di buon carattere. Mi accadeva spesso di discutere con lui, senza eccessi di animosità. Ma al nostro gruppo di amici la sua posizione politica interessava assai di meno della sua fama di dongiovanni. Si raccontava che avesse conquistato le grazie di una giovanissima attrice del cinema, arrivata dalle nostre parti al seguito del marito. Staiti non veniva ritenuto un violento, era soltanto un fascista appassionato, sia pure pronto a litigare, di solito con i suoi camerati. A diciotto anni, aveva preso la tessera del Msi. E rimase per molto tempo nel partito di Giorgio Almirante, tanto da essere eletto deputato per tre volte.

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Un ventennio dopo la fine della guerra civile, la differenza astiosa tra chi si era schierato con una parte e chi combatteva sul fronte opposto si stava dissolvendo. In qualche caso con un po' di lentezza, ma senza ripensamenti. Invece la barriera tra antifascisti e fascisti, una parodia mentale del muro di Berlino, resisteva immutata nei territori della militanza politica, sia quella rossa che quella nera. Non esisteva nessun dialogo tra i missini da una parte e gli antifascisti dall'altra. Potevano soltanto combattersi e qualche volta uccidersi. In realtà si stava di nuovo presentando, o forse non era mai scomparso del tutto, il clima feroce della guerra civile.

Il confronto peggiorò con il divampare del Sessantotto e la nascita dei gruppi che allora venivano definiti extraparlamentari. La legge numero uno degli ultrà di sinistra era di una brutalità animalesca e diceva: «Uccidere un fascista non è reato».

In questo libro vengono rievocati alcuni delitti compiuti da gruppi di sinistra ai danni di militanti o simpatizzanti della destra neofascista. Poi con la nascita delle Brigate Rosse, all'inizio degli anni Settanta, gli scontri tra rossi e neri divennero soltanto le tragiche sequenze di una sanguinosa resa dei conti senza più confini. Assassinare un magistrato, un manager, un operaio o un giornalista contrari al terrorismo brigatista venne considerato un gesto di antifascismo militante. Fu necessario arrivare all'inizio degli anni Novanta per avere un quadro più chiaro del nuovo assetto che stava prevalendo nella politica italiana. È quello che regge ancora oggi. Non più fondato sul contrasto tra fascismo e antifascismo, bensì tra destra e sinistra. Il merito di questa svolta è di un leader politico non professionale, ma destinato a diventarlo e a restare sul campo per molti anni, sino a questo 2015: Silvio Berlusconi. È stato il Cavaliere a dare uno scossone a un mondo che sembrava resistere a tutte le burrasche. Persino alla tempesta rovinosa di Tangentopoli.

Accadde il 23 novembre 1993. In quel momento era in corso la battaglia per il sindaco di Roma fra due politici sulla cresta dell'onda: Francesco Rutelli e Gianfranco Fini. Berlusconi stava inaugurando un supermercato a Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna. I cronisti gli chiesero per chi avrebbe votato al ballottaggio fra i due candidati. Lui non ebbe esitazioni e indicò Fini. Poi aggiunse: «Se abitassi a Roma e non a Milano, voterei per lui poiché rappresenta bene i valori del blocco moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d'impresa, insomma il liberismo. Se le forze moderate non si unissero, allora dovrei assumermi le mie responsabilità. Non potrei lasciare andare il Paese su una strada sbagliata senza far nulla».

Berlusconi doveva essere considerato un fascista, dal momento che suggeriva di votare per Fini, cresciuto nel Movimento sociale? Assolutamente no, anche se poi i suoi avversari, tra i tanti peccati, gli rinfacciarono pure questo.

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