Controcultura

Cristo non è solo fede. È la Natività di una civiltà

L’identità dell’Occidente passa da simboli come il «presepe». E quello di Caravaggio è il più bello

Cristo non è solo fede. È la Natività di una civiltà

S arebbe stato inconcepibile, inimmaginabile, nel secolo scorso - intendo fino al 1999 - ipotizzare che qualcuno in Italia, in Occidente, avvertisse il presepe come nemico. Tutto iniziò con la interdizione, di una parte della magistratura malata, al crocifisso nelle scuole, inteso come ostile in una comunità multietnica dove studenti di altre religioni non si riconoscessero in un uomo in croce, simbolo comunque di umana sofferenza, non di potere. Le religioni dovrebbero aprire un dialogo, non chiuderlo. Il cristianesimo non è soltanto una fede, ma una civiltà, espressa in esempi artistici, letterari, musicali, simbolici, che hanno valore universale. Alcuni riti hanno poi un carattere antropologico, di costume. In molte località si realizzano presepi viventi, rappresentazioni di appartenenza culturale, di identità. A questa natura appartengono le festività, che sono espressione dell’uomo in una certa dimensione culturale, di cui la religione è un aspetto, con le sue manifestazioni.

La religione confluisce nel costume, si identifica in tradizioni popolari che hanno una lunga storia. Interromperla è un atto di arbitrio autolesionistico, che ci rende vittime e succubi. Così, qualche anno fa, accolsi con stupore il lamento dell’amico vescovo di Camerino e San Severino, monsignor Francesco Giovanni Brugnaro, che mi rappresentò sconcertato la posizione di alcuni presidi che avevano stabilito di proibire il presepe nelle scuole. Non ci volevo credere. Il presepe è il racconto di una serata magica, nella quale l’umanità si muove perché qualcuno nasce, e cambierà il mondo. Storia che si fa favola. Ma senza propaganda o enfasi. Facciamo una riflessione sull’importanza di Cristo: quegli stessi professori che interdicono il presepe usano nella loro quotidianità una scansione del tempo che ci fa essere oggi, giorno di Natale, il 24 dicembre 2017, post Christum natum. Il nostro calendario si misura con gli anni di Cristo, perfino nel mondo islamico. Festeggiare l’anniversario di chi ha dato origine a questa lunga storia non è una celebrazione religiosa, ma una constatazione. La storia dell’uomo passa attraverso la rivoluzione di Gesù. Non credo in Dio? Appartengo a un’altra religione? Questo non cambia la rivoluzione umana compiuta da Cristo. Dunque il presepe. Il racconto di una notte. Sogno. Favola. Stella cometa. Nascita di un bambino. Per una festa di bambini. Che ci riporta, psicologicamente, bambini. Inutile pensare alle preghiere, alla Messa, alla liturgia ecclesiastica. Il presepe è la storia di un viaggio. Lo hanno raccontato Gentile da Fabriano, Benozzo Gozzoli, Lorenzo Monaco, e ci hanno mostrato una festa.

Un viaggio che dura due settimane. Tutto il mondo si muove: pastori e contadini, ricchi e poveri, principi e re, bianchi e neri, occidentali e orientali. Si festeggia il compleanno di un uomo, di una storia, della Storia. Nulla di più laico del presepe napoletano, che è soprattutto tradizione, e descrive attività e laboriosità dell’uomo che continua il ritmo del suo lavoro quotidiano, mentre si registra un accadimento improvviso che scuote il mondo: la nascita di Cristo, segnalata dall’annuncio ai pastori, in viaggio nelle valli, fra i monti, chiamati per convenire in un luogo che si fa meta del loro lungo viaggio, per alcuni in una notte senza fine, per altri in lunghi giorni di cammino. La meta è una capanna. Guardiamola dunque: ci soccorre per questo la più bella Natività mai concepita: quella di Caravaggio, in fuga da Malta per trovare accoglienza in Sicilia. Dopo Siracusa, a Messina. Caravaggio è un uomo inquieto, lo è sempre stato, ma in quegli anni estremi è disperato. Non sa dove il suo destino lo porti. Inseguito da una maledizione, a Roma e anche a Malta, riceve un tributo d’onore, per l’ultima volta (siamo nel 1609, morirà dopo pochi mesi) dal Senato di Messina. E anche il pagamento di ben mille scudi, per mettere sull’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Concezione, la chiesa dei padri Cappuccini, una Natività.

L’immagine che abbiamo davanti è sconcertante: in una capanna con le pareti e il soffitto composti di assi sconnesse, sta a terra, nel fango, una donna che stringe fra le braccia un bambino infreddolito. Dietro, al riparo, stanno le bestie, il bue e l’asino. Davanti, una povera mangiatoia di legno piena di paglia e gli strumenti del lavoro di Giuseppe, con un po’ di pane in una cesta. Di fianco, i poveri pastori e, fra loro, Giuseppe in meditazione. Guardano curiosi, e forse inconsapevoli. Con i piedi scalzi, una umanità primaria, senza privilegi, senza identità. Nessun pittore aveva immaginato una Natività così spoglia, così semplice, così umana. Questo è il presepe; e vano e ridicolo sarebbe contrastarlo, come simbolo di qualcosa che appartiene solo a una parte di umanità. No. Davanti a quel bambino c’è tutta l’umanità. Se ne è accorto anche il compagno Tomaso Montanari: «Guardando questo quadro non possiamo dimenticare che, in qualunque cosa crediamo, Natale è la festa della dignità del corpo umano: non importa quanto indifeso, stanco, piccolo, umile, povero, migrante.

Anzi, proprio per questo, divino: cioè degno di essere onorato e amato sempre, comunque, in ogni luogo».

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