Cultura e Spettacoli

Il decreto salvastati? Per Elena di Troia

Il debito sta alle calcagna dello Stato come un mastino pronto a strappare pezzi di carne. Da sempre. Lo Stato è una macchina. Per funzionare, inghiotte carburante. Se i serbatoi vanno in secca, tutto s'inceppa: è il default. Il debito pubblico è lo spettro permanente dei governanti, quelli di oggi e di ieri. Così la storia del debito (e dei rimedi per fronteggiarlo) coincide con quella del potere, della politica, degli Stati. Vediamo cosa e accadeva nell'antichità.
Ai tempi omerici, Agamennone era un capo di Stato. Guidò contro Troia «mille e mille navi», come avrebbe detto il poeta Marlowe. Non era un mordi e fuggi. Era un'impresa di Stato, decennale, la prima a cui l'Europa assistesse. A quali fonti attingeva il re di Micene per far fronte alle spese straordinarie del Paese? Ci fossero stati i distributori, avrebbe calato sulla benzina le accise (dal latino, accìdere, tagliare), come facemmo noi, nel 1935, per finanziare la campagna d'Etiopia: le stiamo ancora pagando. Ma le sue entrate erano altre: il bottino e il dono. Il primo era un elemento strutturale del suo regno. Tutti i principi del tempo erano pirati: in maschere d'oro, da defunti, e travestiti da eroi grazie ai poeti di corte, ma sempre briganti. Ingrassavano il tesoro (l'erario) con la razzia, il rapimento e il riscatto. Il dono rientrava nel costume. Era una società esibizionista, la loro, in parte simile alla nostra: più «si compare», più si conta. Il regalo magnifico è autopromozione pura. Tutti ne parlano. Quello offerto dai vassalli al re doveva stupire.
Quando l'armata greca salpò per Troia, i soldati erano volontari, orde in caccia di avventure e guadagni, come il nerbo dei crociati e gli spagnoli al seguito dei conquistadores. Gli alleati offrirono in dono allo Stato-guida di Agamennone navi, mezzi, organizzazione. Il capo contava inoltre su un cespite morale: il giuramento. Tutti i pretendenti della bella Elena (la crema dell'aristocrazia) si erano impegnati con sacri riti a dar manforte al fortunato che l'avesse impalmata, se qualcosa fosse andato storto. Quando Paride di Troia la sedusse, Menelao, il marito offeso, fratello di Agamennone, fece valere i diritti. Era un legame religioso. Tutti risposero all'appello, una coalizione di ferro a difesa dell'onore. I potenti di oggi se lo sognano, un simile scudo salvastati. Stipulano trattati, firmano protocolli, ma la politica è proprio l'arte di manipolarli a difesa di interessi insorgenti.
Venne poi la polis, la città-Stato, la matrice dell'istituzione. Il debito era sempre in agguato. Solone, il più illuminato legislatore ateniese, gli dichiarò una guerra santa. Nella sua Atene, il debito pubblico era la somma di quelli individuali. Con il debito non si scherzava: l'insolvente finiva ai ferri o, peggio, schiavo del debitore. In tempi di carestia, i contadini poveri, indebitati con i proprietari terrieri, piombavano all'ultimo gradino della scala sociale: lo Stato, da assemblea di liberi, diventava un ergastolo. Solone inventò la seisàchtheia, «lo scuotimento dei debiti», il sogno odierno di tutti gli oppressi dai mutui galoppanti. Abbassò di un quarto il valore degli oneri: chi doveva 100, versava 75. Cancellò le ipoteche per debito sulle terre e sulle persone: ridiede gli ateniesi a se stessi. Galvanizzò il suo Stato con la più efficace delle entrate: la fiducia nella fine di una crisi, l'avvisaglia di un domani migliore. Ma era anche un pragmatico. Divise il popolo in quattro classi, e le tassò in base all'imponibile. «Ho vergato regole imparziali per l'umile e per il potente» scrisse in una poesia autocelebrativa «adattando la giustizia a ciascuno, equa».
Ci saranno stati anche allora gli evasori, ma Atene si avviava alla sua età d'oro. Qui incontriamo Pericle, più spregiudicato. Plasmò uno Stato spendaccione. Non esisteva un vero e proprio welfare (nessuna pensione, le scuole erano private, la sanità era in mano a guaritori prezzolati), ma la cassa pubblica era un colabrodo. Fare di Atene la città più bella del mondo con l'acropoli monumentale, il Partenone e le statue di Fidia costava una follia. Pericle grandeggiò in regalie popolari: pagò i giudici dei tribunali di quartiere (prima lavoravano gratis), e regalò il biglietto per gli spettacoli, come se oggi il ministro di turno spalancasse per decreto i cancelli degli stadi. L'esborso più pesante era la guerra con Sparta. Lo statista non ebbe scrupoli. Spostò all'ombra del Partenone, sotto il suo controllo, il «tesoro della lega». La lega era un'alleanza, in origine paritaria, fra Atene e gli stati isolani dell'Egeo, in funzione antispartana. Tutti i membri contribuivano a una cassa comune, una specie di BCE dell'epoca, collocata in territorio neutrale. Ma Pericle se l'accaparrò. Era un'entrata straordinaria, un'iniezione di liquidità per costruire fortezze, forgiare armi, varare navi. Alle strette, ne pensò un'altra: allungare le mani sul «tesoro della dea», sacro e intoccabile. Era una montagna di talenti d'oro (la moneta forte) chiusa nella cella del Partenone. Cresceva di giorno in giorno, perché vi finivano le decime delle multe e dei tributi cittadini. Le leggi vietavano di attingervi. Ma Pericle le stravolse. Morì prima di incamerare i santi miliardi. I successori sfruttarono il precedente. Lo chiamarono «prestito dalla dea»: un sacrilegio.
Ne successero altri, nella storia. Napoleone era un maestro nel mettere questo genere di pezza al debito pubblico, con la spoliazione di cattedrali e conventi. Ma Atene aveva altri assi nella manica. Il più fruttifero era la «liturgia»: il cittadino abbiente si sostituiva allo Stato in un «servizio». Per esempio, finanziava una trireme, una nave da guerra, paga all'equipaggio compresa. Era un grosso esborso. In cambio, reputazione, onori, credito personale. Oggi capita che un imprenditore si assuma il restauro di un monumento. Toccherebbe allo Stato, ma la cassa piange, e allora subentra il privato, che ne ha un ritorno d'immagine. Nella sua vicenda millenaria, Roma ha collezionato debiti e ogni genere di rimedi. L'«imposta sulle persone fisiche» è un'invenzione romana: si chiamava tributum, e gravava sui capita, sulle «teste» dei congiunti di un pater familias. Era il versamento più odiato.
Al centro del mondo e dei commerci, Roma drenava entrate con i dazi. Man mano che conquistava province, imponeva tasse. E allora entravano in scena i publicani, gli antenati delle Agenzie delle Entrate. Lavoravano in appalto. Lo Stato pattuiva con loro una quota di gettito dal territorio di competenza: se gli esattori ne spremevano di più, si tenevano il surplus. Possiamo solo immaginarne le angherie. Molte zone furono strangolate dagli avidi funzionari. In piene guerre civili, le liste di proscrizione garantivano un introito irrorato di sangue. Le inaugurò Silla. Si pubblicavano all'albo gli elenchi nominativi degli avversari politici. Si dava facoltà a tutti di eliminarli e di incamerarne il patrimonio, versandone una parte allo Stato. Nel giro di pochi giorni, l'opposizione era spazzata via, e il fiscum ripianava gli ammanchi. Tutti gli imperatori lottarono con il debito. C'era chi, come Vespasiano, tassava tutto, perfino le pubbliche latrine, perché i soldi non puzzano, e chi, come Caligola e Nerone, si faceva intestare le eredità dei dissidenti mandati al patibolo. Storia vecchia, quella del debito pubblico.


(1. Continua)

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