Cultura e Spettacoli

La «Forma Divina» dell'opera lirica sotto la lente di Fedele d'Amico

Quando Fedele d'Amico ci lasciò nel 1990 fu subito chiaro che il vuoto non sarebbe stato colmato. Perdemmo un critico musicale e insigne docente con pochi eguali. Fin da quando aveva i calzoni corti d'Amico fu testimone della vita culturale, cresciuto da babbo Silvio fianco a fianco del Gotha attoriale e teatrale, frequentatore dei concerti ceciliani nel leggendario Augusteo, dove il conte di San Martino scritturava i migliori solisti e le bacchette più celebri del mondo e delle riunioni nella casa-studio di Alfredo Casella a via Nicotera. Lì il più europeo fra i musicisti del Novecento storico italiano accoglieva colleghi e allievi, e d'Amico poteva discutere con Massimo Bontempelli o Goffredo Petrassi, prendersi la briga di contraddire Pirandello.
Quante volte ascoltando un'opera nuova o un classico del repertorio ci si è domandati: cosa ne avrebbe detto d'Amico? La pubblicazione della quasi totalità dei programmi di sala scritti da lui fra il '50 e l'88 è ben più di una consolazione. Forma Divina. Saggi sull'opera lirica e sul balletto (Olschki, pagg. 578, euro 54) con la curatela di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi, allinea in ordine cronologico saggi che sono anche un preciso ritratto delle innumerevoli passioni di d'Amico: da Gluck e Mozart a Rossini e Verdi, dai russi a Puccini, da Weill e Hindemith a Henze e Berio. Lo spazio ristretto del «programma di sala» si confaceva alla sintetica chiarezza con cui d'Amico prendeva per mano il lettore per avvicinarlo in modo perentorio e chiaro alle ragioni culturali e alle caratteristiche tecniche di un'opera. Come pochi altri critici musicali d'Amico ha considerato la forma divina (l'opera) sempre in rapporto agli interpreti per cui fu scritta e alla prassi esecutiva del tempo. D'Amico acquisì fama di bastian contrario per aver difeso musicisti come Menotti o Rota, nomi impronunciabili per l'avanguardia perché rei di incontrare il favore del pubblico, «in un paese come il nostro dove le opere nuove si danno soltanto in prima assoluta» e «la contabilità d'un successo è impresa da chiromanti».
Stupisce a ogni pagina non solo la sicurezza, ma anche la tenuta del pensiero di d'Amico, esposto con una prosa ritmata e originale che tiene serrato il lettore fino all'ultima riga. Magistrale nelle chiuse. Un esempio, per sottolineare la potenza del tragico Rigoletto finisce, con grande senso di spirito, riassumendone le tribolazioni censorie. «Qua il Duca divenne campione di buoni sentimenti, là Rigoletto perdé la gobba e la professione. E naturalmente niente maledizione, niente feste al tempio, niente cortigiani, niente vendetta.

Capitò anche che Gilda invece di lasciarsi trucidare dallo spadone di Sparafucile, gli strappasse di mano il pugnale per volgerlo contro sé stessa».

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