Cultura e Spettacoli

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi

Dopo il 25 aprile del 1945, i tedeschi sacrificarono gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero. E per gli uomini della Rsi il conflitto proseguì fino al 2 maggio

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi

Nel 70º anniversario del «25 aprile» l'editore D'Ettoris ha pubblicato un libro che mancava: Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all'ultima settimana dell'esercito di Mussolini (pagg. 144, euro 14,90). L'autore, Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia Militare, colma una lacuna. Sì, perché, come dice Francesco Perfetti nella prefazione, permane «la convinzione che il 25 aprile 1945 siano cessate definitivamente le ostilità in Italia». Ma «il conflitto durò ancora per una settimana provocando perdite fra militari e civili almeno fino al 2 maggio 1945. Questi sette giorni sono stati poco esplorati dalla storiografia».

Con una precisione da consumato studioso, Rossi ci informa nel dettaglio su ciò che avvenne in quella settimana fatale. Che conobbe il caos, le diserzioni, il «si-salvi-chi-può», i voltagabbana, ma anche pagine di autentico valore e di lotta disperata. Già, perché fu subito chiaro, a chi voleva vederlo, che «i tedeschi intendevano sacrificare gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero», cosa che fin dal febbraio 1945 era stata decisa in una riunione a Parma dei vertici militari tedeschi.

Del resto, che cosa questi pensassero degli italiani era stato bene espresso in un giudizio del generale Eugen Ott, ispettore della Wehrmacht per le divisioni della Rsi: «Conoscendo la qualità militare e la mentalità dell'italiano \ non ci si può aspettare molto da questa truppa». Così, i repubblichini furono praticamente lasciati a vedersela con l'avanzata anglo-americana e i partigiani. E i fedeli del Duce sapevano bene che questi ultimi non erano inclini a fare prigionieri. «Come bene aveva intuito Renzo De Felice (e, a onor del vero, assai prima Beppe Fenoglio) nella sua opera postuma e, purtroppo, incompleta, fu guerra civile “senza se e senza ma”, e il solo fatto che se ne parli a quasi settanta anni di distanza accalorandosi come se tali eventi fossero di attualità, dimostra a volumi - se ancora ce ne fosse bisogno - che come tale essa è percepita ancora oggi da molti italiani».

Fenoglio nel 1949 aveva intitolato una sua prima raccolta di scritti Racconti della guerra civile , ma l'editore Einaudi l'aveva modificato in Racconti barbari . Il termine «guerra civile» dilagò solo dopo la pubblicazione, nel 1991, del libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri).

In quei giorni parossistici il destino dell'agonizzante repubblica fascista e delle sue forze armate era l'ultimo dei pensieri non solo dei tedeschi, ma anche degli Alleati, per i quali l'Italia rappresentava un teatro di guerra secondario nello scacchiere europeo. Inoltre «i leader occidentali (Winston Churchill su tutti) temevano una replica dell'amara esperienza greca, dove alla liberazione era seguita una feroce guerra civile fra nazionalisti e comunisti nella quale le truppe britanniche erano rimaste pesantemente coinvolte». La guerra era ormai praticamente conclusa e l'evitare un insensato sacrificio di vite umane fu il problema che occupò le lunghe trattative in Svizzera tra Karl Wolff, plenipotenziario delle forze armate tedesche, e Allen Dulles, responsabile dell'Oss (Office of strategic service), che negoziarono la resa tedesca in Italia. Ma che fare dei prigionieri repubblichini? «Questi ultimi erano considerati dagli Alleati alla stregua dei tedeschi, ossia reparti combattenti i cui componenti ricadevano pienamente sotto la convenzione di Ginevra».

Così non la pensava Giovanni Messe, capo di stato maggiore del regio esercito, per il quale, essendo l'Italia di Vittorio Emanuele III ufficialmente in guerra con la Germania dall'ottobre 1943, i soldati di Salò erano colpevoli di tradimento per aver collaborato in armi «con il tedesco invasore». E dire che il Messe era stato a suo tempo decorato dai tedeschi con la croce di ferro di prima e seconda classe e, per giunta, era l'unico Maresciallo d'Italia ad avere ottenuto l'ambitissima Ritterkreuz che neanche Graziani, capo delle forze armate repubblichine, aveva.

Per quanto riguardava il Cln, questo aveva stabilito l'instaurazione di tribunali straordinari che avrebbero dovuto giudicare i «collaborazionisti». Il Cmrp (Comitato militare regione Piemonte), da parte sua, decise di passare subito per le armi tutti coloro che avessero militato nelle forze armate di Salò. Né i fascisti, d'altro canto, si comportavano in modo granché diverso con i partigiani catturati. I marò repubblichini furono abbandonati dal generale tedesco Eccard von Gablenz, che contrattò il ritiro dei suoi uomini con i partigiani senza dirlo agli italiani. Questi, decimati dall'aviazione alleata durante la fuga, il 26 aprile 1945 decisero di sciogliersi. Tutti a casa (forse). Quelli di Brescia, responsabili di una rappresaglia, nello stesso giorno «con poca accortezza» si consegnarono al Cln di Lumezzane. Con il risultato che il loro comandante, tenente colonnello Mario Zingarelli, e venticinque marò furono fucilati il 10 maggio. E così via. Italiani contro italiani. Più guerra civile di così..

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