Cultura e Spettacoli

Gli incredibili resti dell'ominide gigante? Sono un vero fattoide

Uno dei più significativi archeologi del Novecento è stato Amedeo Maiuri (1886-1963), i cui none purtroppo oggi non dice nulla ai più (come del resto quello di Giacomo Boni), nonostante a lui si debbano le campagne archeologiche nel Dodecanneso e soprattutto la direzione dei decennali scavi a Pompei, Ercolano, a Cuma, a capri e ai Campi Flegrei. Ora si scopre un momento particolarissimo, sconosciuto e misterioso della sua attività con la mostra Il più grande artista del mondo al Museo Nazionale Archeologico di Napoli (sino al 9 marzo) dove si presentano reperti, fotografie e documenti sino ad oggi ignoti, ritrovati dalla Associazione Brigataes per puro caso negli archivi del Museo. Di che si tratta? Nel 1938 durante gli scavi condotti da Maiuri in cima alla acropoli di Cuma venne rinvenuto nei pressi del tempio di Giove qualcosa di inaspettato e sconvolgente: giganteschi frammenti ossei che per le loro dimensioni potevano far supporre di appartenere ad uno scheletro altro almeno tre metri di un essere vissuto 40mila anni fa (vale a dire al momento del passaggio dall'Homo Neandhertalensis all'Homo Sapiens). Agli archeologi italiani si aggregò il tedesco Ralph von Koenigswald (1902-1982), da anni alla ricerca di prove ulteriori per identificare il Giganthopitecus (la definizione è sua) da quando nel 1935 ne aveva trovato dei enormi molari a Hong Kong. Quando poi dagli scavi emerse anche «una frazione di lastra in pietra con traccia di pittura rupestre che rivelava una forma simbolica sconosciuta», il paleontologo tedesco definì subito quello scheletro «il più grande artista del mondo». Tutto questo materiale avrebbe dovuto far parte di una esposizione da inaugurarsi nel 1939, ma lo scoppio della guerra ne impedì la realizzazione e così ossa, foto e documenti finirono nei magazzini del Museo Archeologico napoletano e nessuno ci pensò più. Fino alla odierna fortunata ed eccezionale scoperta dovuta come detto ai membri della Brigataes, la sigla di «produzione estetica» alla quale si devono già molti interventi urbani e istallazioni e video.

I visitatori troveranno nella Sala della Meridiana del museo napoletano i reperti estratti dal suolo dell'acropoli (un teschio, un femore, una mano), fotografie, un filmato di cinque minuti dell'Istituto Luce, documenti dell'epoca, ma anche altri manufatti litici ritrovati sul posto e il catalogo della mostra stessa con testi critici pubblicato alla Editoriale Scientifica. Una chicca quindi da non perdere per tutti gli amanti dello strano e del meraviglioso. Un fatto eclatante. O non sarà per caso un eclatante fattoide, come Gillo Dorfles ha definito gli pseudo-fatti, i fatti che sono all'apparenza veri ma veri non sono? In una società abituata ai falsi in Rete e alle meraviglie digitali dei film di fantascienza non dovremmo troppo meravigliarci o scandalizzarci. Ma qui ci troviamo di fronte a cose concrete non a semplici immagini: ossa, carte, vecchie foto, pellicole che danno il senso perfetto della realtà e non certo di un falso smaccato, e nemmeno di una burla. È questo il bello dell'operazione. Brigataes ha da questo punto di vista ha realizzato veramente una cosa unica, un'opera d'arte e d'immaginazione che avrebbe fatto la gioia dei massimi inventori letterari di queste faccende. Che le istituzioni scientifiche ufficiali si siano mostrate disponibili per questo «fattoide» va a loro merito e sono da applaudire. Anche di questo si vive e non solo di realtà, anche del «più grande artista del mondo», più vero del vero..

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