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In inglese Croce si dice Collingwood

Esce l'Autobiografia del filosofo britannico. Fautore dello storicismo contro l'astrattezza di metafisica e "realismo"

In inglese Croce si dice Collingwood

Robin George Collingwood (1889-1943) è uno dei più significativi filosofi inglesi ed europei del Novecento ma, probabilmente, non ne avete mai sentito parlare. I manuali di storia della filosofia, che in verità lasciano il tempo che trovano, non lo citano se non in nota a pie' di pagina. Dunque, per l'autore di The Principles of Art vale il classico luogo manzoniano in cui don Abbondio cita Carneade e dice: «Carneade, chi era costui?». Allora, diciamolo subito: Robin George Collingwood è il filosofo inglese che, erede a suo modo della «scuola di Green» e formatosi con la filosofia di Giovanni Gentile e, soprattutto, di Benedetto Croce, concepì quella «logica della domanda e della risposta» che ha interessato alcuni dei più importanti pensatori del secondo Novecento come, ad esempio, Gadamer e Skinner.
L'avventura del suo pensiero - che tale effettivamente fu, un'avventura personale e non una ripetizione di pensieri altrui - è raccontata nella sua An Autobiography che uscì nel 1939, quattro anni prima della sua prematura scomparsa, e che fu pubblicata in Italia presso Neri Pozza nel 1955, l'anno in cui l'editore veneziano pubblicò l'importante libro di Carlo Antoni Commento a Croce. Oggi l'Autobiografia di Collingwood ritorna in libreria in una nuova edizione della Castelvecchi e con una prefazione di Corrado Ocone (euro 18, 50, dal 4 febbraio).
L'Autobiografia, che può svolgere la funzione di introduzione alla filosofia di Collingwood, è concepita dal filosofo britannico alla maniera crociana: non vi sono narrati fatti esteriori della sua vita, ma la storia del suo pensiero ossia la sua origine, il suo sviluppo, la sua messa a punto e, insomma, l'esigenza da cui quel pensiero della «domanda e della risposta» nasceva nel tentativo avvertito di dover superare le astrattezze e inconcludenze della metafisica e dell'ancor più banale e metafisico «realismo». Oggi che il «realismo» è tornato a riaffacciarsi nella storia delle idee, la logica di Collingwood è quanto mai preziosa perché ci offre la possibilità di vedere tanto i limiti del «realismo» - che vuole solo «fatti» come una volta dicevano i positivisti - quanto le esagerazioni del pensiero postmoderno - che ritiene che tutto sia un'interpretazione.
In fondo, era proprio e già questa la posizione che assumeva Gadamer nella sua opera più importante, Verità e metodo, quando considera «il primato ermeneutico della domanda» e, dialogando tanto con Collingwood quanto con Croce, mette in luce che la comprensione è un fenomeno storico e «gli eventi storici si capiscono soltanto in quanto si ricostruisce la domanda di cui le azioni storiche delle persone rappresentano di volta in volta la risposta». Potremmo dire, senza essere granché lontani dal vero, che esistono due modi di concepire la verità: il primo è quello che immagina che, utilizzando con metodo la testa, si giunga per tappe alla Verità; il secondo ritiene che la verità sia affratellata con i fatti e che sia un modo di essere della vita dell'uomo che ricorre al vero per rispondere alla domande che la vita gli reca innanzi nel tentativo di risolvere problemi sempre nuovi. Secondo la prima idea di verità, la storia della filosofia altro non è che una serie di risposte date alle eterne domande e, nel caso del «realismo», ci sarebbe anche la possibilità di stabilire chi ha detto la verità e chi sciocchezze; per la seconda idea di verità, la storia della filosofia è filosofia-storia essa stessa ed è molto più ricca e saporita di quanto non si creda perché le risposte dei filosofi (ma non solo dei filosofi) presuppongono domande diverse e i concetti mutano storicamente, così come cambia l'idea di politica e di Stato dalla Repubblica di Platone al Leviatano di Hobbes che vissero il primo al tempo della polis greca e il secondo al tempo dell'assolutismo.
La storia del filosofo di Oxford raccontata nell'Autobiografia è affascinante. Non solo dal punto di vista logico e delle dispute tra filosofi, ma anche per la sua qualità morale. Egli soffriva la vita della sua patria, dell'Europa e del suo tempo e notava che al grande svolgimento delle scienze fisiche e naturali non corrispondeva l'affermazione del pensiero storico e ne traeva motivo di preoccupazione perché sapeva che gli uomini non avrebbero raggiunto una più cosciente guida delle loro azioni estendendo il metodo naturalistico al mondo della morale che solo si sarebbe irrobustito o avrebbe ricavato giovamento dallo storicismo, ossia da un approfondimento dell'umanesimo. L'ultimo capitolo dell'Autobiografia, intitolato «Teoria e pratica», è esemplare e ci mostra come il pensiero vero altro non sia che vita morale.
Quando Croce seppe con ritardo della morte del suo amico inglese lo ricordò e volle chiudere il suo scritto del gennaio 1946 con le parole finali del libro di Collingwood sulla Metafisica. Eccole: «Il destino della scienza europea e della civiltà europea è in giuoco. La gravità del pericolo sta specialmente nel fatto che pochi riconoscono che esiste un pericolo qualsiasi. Quando Roma fu in pericolo, lo schiamazzo delle oche sacre salvò il Campidoglio.

Io sono un'oca professorale, con toga e berretto e nutrita alla tavola del collegio; ma schiamazzare è il mio compito, ed io schiamazzerò».

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