Cultura e Spettacoli

Isola d'arte nel Mediterraneo Ecco la Sicilia che non t'aspetti

Semplicemente diversi. Gli artisti siciliani, per tutto il Novecento e fino ai giorni nostri, rappresentano un'anomalia nel panorama nazionale, per la loro indipendenza da mode e costumi e per la libertà del fare che li rende unici ma subito riconoscibili, come appartenenti a una sola grande famiglia. Ha ragione Vittorio Sgarbi quando dice che una situazione del genere non si è creata altrove, né in Emilia né a Torino, né a Roma né a Milano. Un'isola separata da un braccio di mare, collegata da un ponte ipotetico che non si farà mai e che ne segna quella necessaria distanza dal continente, una sovrana inattualità per chi ha deciso di restare, un'aristocratica malinconia mediterranea per chi ha pensato di cercar fortuna altrove.
Artisti di Sicilia è un progetto, più che una semplice mostra, curato da Sgarbi all'ex Stabilimento Florio di Favignana -un'isola nell'isola- fino al 12 ottobre con oltre 200 opere. Dalle espressioni Liberty al realismo, dalla scuola di Scicli a quella di Palermo, per non tacere della fotografia che rappresenta forse oggi la ricerca espressiva più interessante, la linea figurativa sembra dominare, nonostante vi siano autentici giganti, come Carla Accardi ed Emilio Isgrò a farla da padrone nei loro rispettivi generi: l'astrazione per la pittrice trapanese, naturalizzata romana e scomparsa pochi mesi fa, il concettuale più immaginifico e letterario per Isgrò, scelto da un referendum come artista italiano del 2013.
Sgarbi, il più affidabile conoscitore della pittura di genere, riporta alla luce alcune preziose chicche di inizio secolo scorso come Aleardo Terzi e Totò Gregorietti, definendoli «gli equivalenti siciliani di Bonnard ed Erté» e il nudo di Alfonso Amorelli, autore del tutto dimenticato, invece in linea con Valori Plastici e Casorati. Prima dell'affermazione di Renato Guttuso, che cambia verso alla pittura figurativa, e non solo in Sicilia, ecco il futurista Pippo Rizzo, docente in Accademia a Palermo, e Lia Pasqualino Noto, una delle rare presenze femminili, coraggiosa a rifiutare l'arte di regime e imporsi come figura da cenacolo intellettuale. L'intuizione del curatore, peraltro qui condivisa, è nel restituire al pittore di Bagheria la centralità che merita: Guttuso, in vita punto di riferimento centrale della cultura comunista ispirata da Picasso, ha pagato post mortem l'eccesso di ideologia. È invece pittore raffinatissimo e visionario, autore di diversi capolavori -da Crocefissione del '41 alla Vucciria del 1974- ed è per l'arte italiana non così distante da ciò che Bacon è stato per la Gran Bretagna, in fondo uno straordinario solitario nonostante la frequentazione delle sedi di partito e dei salotti bene capitolini.
Di isolati aristocratici si compone la spina dorsale della Trinacria: da Fausto Pirandello a Giuseppe Migneco, da Pietro Consagra a Nino Franchina, da Salvatore Fiume (che pittore curioso, meriterebbe un effettivo recupero) a Mimmo Germanà (escluso, per motivi reconditi, dalla Transavanguardia). Se Salvo, trasferitosi giovane a Torino, dopo una breve stagione concettuale ha anticipato la pittura postmoderna, Turi Simeti sulla scorta dell'esperienza di Azimuth ha elaborato il monocromo di area milanese su superfici più calde, vibranti di luce mediterranea. In quanto a Piero Guccione siamo di fronte a uno dei migliori nostri paesaggisti, essenziale e assoluto a catturare la pura luce, come una fotografia di Sugimoto.
E visto che siamo nei pressi di questo linguaggio, da Enzo Sellerio a Letizia Battaglia, da Ferdinando Scianna allo scrittore Leonardo Sciascia, veniamo avvolti in un bianco e nero che dalla matrice realista sfuma, inevitabilmente, nel sogno, nonostante la crudezza di certe immagini legate a doppio filo al dramma della mafia.
Permettetemi una digressione biografica: a inizio anni '90 cominciai la carriera accademica a Palermo e fui complice critico di un'avventura breve per quanto intensa. Quattro allora trentenni, Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza e il povero Andrea Di Marco, deceduto per una banale intossicazione lo scorso anno, rappresentavano la linea più aggressiva della giovane pittura italiana, un mix tra l'eredità guttusiana e lo splatter tarantiniano. Dopo sono venute altre eccellenze, come il pop di Giuseppe Veneziano e l'iperrealismo di Giovanni Iudice, che qui presenta uno straordinario quadro sull'immigrazione clandestina e disperata.


Fatto è che, in qualsiasi latitudine, il siciliano non perde mai il proprio fantastico accento né la propria singolarità.

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