Cultura e Spettacoli

L'apoteosi dei Berliner alla Scala

Il trionfo della leggendaria Filarmonica diretta da Simon Rattle bissa il successo della «Turandot»

L'apoteosi dei Berliner alla Scala

Dopo la festosa accoglienza tributata alla Turandot di Puccini la sera del Primo Maggio, alla Scala si registra un'ulteriore impennata d'entusiasmo per il concerto della leggendaria Filarmonica di Berlino che sabato sera ha aperto la parata delle più celebri formazioni orchestrali del mondo, invitate al Piermarini durante il periodo dell'Expo. L'uscente direttore musicale dei Berliner, Simon Rattle (a giorni si conoscerà il suo Eletto successore), ha iniziato il programma sferrando un colpo da knock-out : la fanfara speciale di tredici ottoni che apre la Sinfonietta di Leos Janácek ha dato subito il timbro della serata, dominata dalla qualità e dallo splendore fonico non solo della sezione degli ottoni. Il resto dell'orchestra berlinese, infatti, non è stato inferiore a trombe, tromboni, corni, tube: in special modo la polpa e il colore diversificato di tutti gli archi e la personalità delle sortite dei «legni» nella sublime Settima di Bruckner. Uno strapotere sonoro che potrebbe sollevare interrogativi sullo spazio del direttore d'orchestra in una simile organizzazione musicale. Rattle in questi giorni ha confessato che lavorare con musicisti di questa qualità è un vantaggio, ma anche un problema (s'intende di brodo grasso). Comunque sia l'intesa fra i Berlinesi e Rattle, sedimentata da un lungo sodalizio, non è mancata, tanto che, sia l'originalissima e difficile sinfonia janacekiana sia il colosso bruckneriano sono scorsi, senza pesantezze né retorica, fino al tripudio conclusivo. La fine del concerto è stata un apoteosi: dal palco di proscenio applaudiva anche il maestro Riccardo Chailly.

Bel segno quello di presenziare ai concerti dei colleghi più e meno giovani (lo stesso è accaduto col maestro Christoph von Dohnànyi qualche settimana fa). Anche da questo si capisce che il barometro a Milano è in salita. In un teatro blasonato come la Scala, il «clima» è tutto. Il lettore ci permetterà di tornare indietro alla serata di Turandot per sciogliere la riserva legata alla versione scelta da Chailly - quella di Luciano Berio - per completare il duetto finale dell'opera, preferito alla «storica» versione di Franco Alfano. Critiche e apologie interessate avevano accompagnato la sorprendente decisione di Berio di occuparsi di un musicista che era stato la bestia nera della sua generazione. La realtà esecutiva ha dimostrato che Berio ha avuto ragione: espungere il retorico coro finale, optando per una poetica uscita di scena della coppia Turandot-Calàf, davanti al cadavere di Liù, è un acquisto che rende chiaro come il loro amore germogli sulla morte della schiava. I temi lasciati fra gli appunti di Puccini ci sono tutti e ben riconoscibili ( Principessa di gelo , O mio fiore mattutino ); la ripresa della siderale invocazione corale del secondo atto ( Diecimila anni al nostro Imperatore ) è un colpo maestro; gli aforistici connettivi scritti ex novo , in uno stile mitteleuropeo fra Mahler e Schönberg, conferiscono alla chiusa un fascinoso clima onirico, coerente con lo spettacolo predisposto dal regista Nikolaus Lehnhoff. Scena fissa: in un turrito atrio tempestato di borchie si narra la fiaba tratta da Gozzi con asciutto sadismo, ispirato al cinema e al fumetto fra le due guerre mondiali.

Il maestro Chailly ha confermato il suo grande amore per Puccini, governando coro (gran lavoro del maestro Casoni, anche nella veste di istruttore del coro di voci bianche), orchestra e solisti: Nina Stemme (Turandot) lega vocale svedese che non tradisce, Maria Agresta (Liù) - oggi la nostra migliore soprano - effusione lirica intensa, Alexsandr Tsymbaliuk (Timur), nobile portamento orientale. Incisive più sul lato scenico che vocale le tre maschere, stilizzate in figure clownesche (Angelo Veccia, Roberto Covatta, Blagoj Nacoski). L'imperatore Altoum compariva in un tondo centrale avvolto in un costume stupendo, altissimo e affusolato, a ricordare l'isolamento e l'altezza del suo rango imperiale. Il Figlio del Cielo aveva la voce ferma e giovanile di Carlo Bosi. Preoccupato e un po' avulso Alexsandrs Antonenko (Calàf), forse il più penalizzato dalla generale scarsa percettibilità fonico-emotiva in sala.

Un altro bel colpo alla salita del barometro lo ha dato il Sovrintendente Pereira, annunciando un futuro omaggio a tutto il teatro di Puccini: una bella risposta a quanti hanno sparso dubbi sul genio pucciniano.

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