Cultura e Spettacoli

L'assassinio? È davvero una bella arte

Quaranta opere per scoprire il senso della paura e l'estetica del crimine

L'assassinio? È davvero una bella arte

La scena del crimine è al Pac di Milano, Padiglione d'arte contemporanea trasformato in un creativo laboratorio delle paure, le violenze e le devianze dell'uomo. Una mostra, angosciante, sul rapporto tra arte e crimine. Estetica ed etica. Bellezza e orrore. Titolo: Il delitto quasi perfetto (curata da Cristina Ricupero, è aperta fino al 7 settembre). Il sottile piacere dell'assassinio, come una delle belle arti, del resto, l'aveva già teorizzato Thomas de Quincey, nel 1827. È l'eterno conflitto tra l'uomo sapiente e la sua passione per ciò che è violento e terrificante.
Così, fra seghe elettriche placate oro, uomini d'affari-zombie e gioielli scintillanti realizzati con schegge di vetro prelevate su sanguinose crime scenes americane, la mostra - pur in una location luminosissima, visitata alle 13 di un pomeriggio deserto - inquieta e stupisce. Due piani, cinque sale, un parterre: in tutto quaranta opere di quaranta artisti contemporanei, italiani e stranieri. Dall'americano Allen Ruppersberg, pioniere del concettuale, che trasforma i necrologi in pop art, all'austriaco Markus Schinwald e i suoi tranquilli ritratti disumani. C'è persino un “pezzo” di Maurizio Cattelan, del 1994: un bouquet di fazzoletti di seta, legati da una calza di nylon, per asciugare le lacrime dell'attentato che, la notte del 27 luglio 1993, uccise cinque persone, qui fuori.
Qui dentro invece c'è la cronaca (l'installazione di Jill Magid che trasforma le registrazioni video di una sparatoria in un campus degli Stati Uniti in una fiction, col Faust di Goethe come colonna sonora), c'è la filosofia di De Quincey (la citazione di Karl Holmqvist Why is desire always linked to crime? che accompagna il visitatore durante il percorso), c'è il cinema (Brice Dellsperger firma remake di film di culto come Vestito per uccidere o The Black Dahlia, reinterpretati da travestiti), c'è la cultura pop (i dipinti di Jean-Luc Blanc ispirati ai «cattivi» dei noir, i B-movies e le riviste pulp).
Poi, c'è la paura peggiore: l'indicibile e l'inquietudine. Come quella che si prova all'entrata, appoggiata alla parete bianca della prima sala: una sequenza ordinata di jeans e felpe rosse, vuote, come figure accucciate, senza corpo né volto. L'artista, Keith Farquhar, vuole forse alludere alla cultura di strada delle gang, forse evoca il Ku Klux Klan. In realtà, dentro quelle felpe rosse ci sono gli «Angeli dell'Apocalisse» di Fiumi di porpora, le creature di The Village di Night Shyamalan, gli uomini dell'FBI in rosso che circondano Jodie Foster nell'ascensore de Il silenzio degli innocenti... Per ognuno di noi, l'orrore ha una forma diversa.
È come la grande installazione dell'italiana Monica Bonvicini: una macchina di tortura (e desiderio) composta da imbragature di lattice nero, vuote, appese a una catena d'acciaio immobile, poi strattonata da qualcuno all'improvviso, nel silenzio della stanza. Chi c'è appeso? Per noi - anche se l'artista vuole indagare il rapporto tra spazio, spettatore e potere sessuale - c'è mezzo cinema dell'orrore, da The Texas Chainsaw Massacre a Hostel. E tanti altri piccoli orrori quotidiani, e tanti altri piccoli criminali. Come coloro che si riflettono negli specchi attraversati da cicatrici graffettate appesi alle pareti lungo il percorso.

Perché, come sempre, i veri mostri siamo noi.

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