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Mea culpa su Pillitteri. Altro che "cognato di...", è stato un vero politico

La necessità di rivedere il giudizio su un uomo che ha pagato la colpa di essere parente di Craxi. Si è dimostrato un eccellente amministratore

Mea culpa su Pillitteri. Altro che "cognato di...", è stato un vero politico

Premessa obbligatoria. Di Paolo Pillitteri, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, ho detto tutto il male possibile. Anche di più. Per un motivo semplice quanto stupido: lui era cognato di Bettino Craxi, e a me i cognati sono sempre stati antipatici almeno quanto le cognate. Avevo maturato l'idea che l'uomo avesse fatto carriera perché era uno di famiglia. Me lo immaginavo girare per casa in canottiera e ciabatte, e raccomandare a Bettino: ricordati di me. Quando poi divenne sindaco di Milano, mi parve di aver avuto la conferma: ecco, ha fatto strada, di chi sarà il merito?

In quel periodo i socialisti erano di moda, contavano parecchio, avevano il potere in tasca e lo usavano, esattamente come i democristiani e i comunisti, ma davano l'impressione - a differenza degli altri - di sciuparlo con arroganza. Al Corriere della Sera , dove lavoravo con qualche frustrazione non dissimulata, se non indossavi la casacca di un partito importante, non andavi lontano. Le promozioni non avvenivano su iniziativa del direttore, almeno questa era la leggenda.

Chi saliva nella scala gerarchica aveva uno sponsor in qualche segreteria politica. I più sfigati erano spinti dal sindacato, specializzato in trattative con l'editore e la direzione. Esempio: il cosiddetto Cdr (Comitato di redazione) accettava tre nomine suggerite dai partiti in voga e, in cambio, pretendeva che un proprio beniamino decollasse, in applicazione del principio sempiterno: do ut des. Chissà perché io passavo per socialista, forse perché lo ero stato da ragazzo. Ma non lo ero più da lustri, cosicché il Psi si guardava dal darmi una mano a uscire dal mucchio selvaggio dei peones.

Nel momento in cui Piero Ostellino mi appiccicò in fronte la qualifica di inviato speciale, meditai vendetta, tremenda vendetta. Le questioni personali hanno sempre un peso nelle cattive azioni umane, in particolare le peggiori. Nel mio animo contorto germogliò la certezza che la Prima Repubblica e le forze di maggioranza fossero responsabili di ogni guaio del nostro vituperato Paese. Fu per questo che, allorché scoppiò la vescica di Tangentopoli, mi scatenai contro qualsiasi partito, inclusi quelli degli ex comunisti e quello di Bettino. Antonio Di Pietro divenne subito il mio privatissimo giustiziere della notte e pure del giorno. Più politici sbatteva in galera e più godevo, trasferendo il mio piacere fisico negli articoli che scrivevo per L'Indipendente , da me trasformato in organo ufficiale di Mani Pulite.

Questa la premessa cui ho accennato all'inizio: un po' lunga, ma necessaria per spiegare perché misi nel mirino Pillitteri. Gliene dissi di tutti i colori. Se avessi potuto lo avrei accusato con voluttà anche di reati infamanti, compresa la pedofilia. Non mi spinsi fin lì per mancanza di materia prima, altrimenti ci avrei dato dentro.

Il pregiudizio è una brutta cosa, talmente brutta da incidere sulla coscienza, che talvolta rimorde. In ritardo, confesso: Pillitteri, nonostante fosse cognato, è stato un eccellente amministratore. Forse non in assoluto, ma, sicuramente, se paragonato ai suoi successori oggidì trionfanti (si fa per dire), bisogna definirlo un fuoriclasse, degno erede in campo politico e tecnico di Quintino Sella. Esagero? Ovvio, tento di ottenere da lui l'assoluzione. Sento che me la concederà. Anche perché nei prossimi giorni andrà in libreria il volume Tutto poteva accadere... pubblicato da Mursia, contenente una sua lunga intervista rilasciata a Roberto Vallini, ottimo giornalista, nella quale l'ex sindaco di Milano racconta con sincerità disarmante la propria esperienza di personaggio pubblico, accanto ai Vip della politica, dell'industria culturale e dello spettacolo che hanno fatto del capoluogo lombardo un centro europeo in ogni senso, all'avanguardia in mille campi, cioè una metropoli - l'unica italiana - in grado di competere con le migliori del mondo intero.

Leggere i ricordi di Pillitteri significa comprendere un pezzo fondamentale della storia italiana. Utile per interpretare l'attualità. Quello di Paolo non è uno sfogo consegnato all'editoria: non c'è una riga nelle 416 pagine (18 euro) che trasudi livore per il trattamento ingiusto subito da lui all'epoca della pseudorivoluzione giudiziaria che sconvolse il nostro Paese.

Pillitteri è un soggetto mite, riflessivo e intelligente: ha attraversato situazioni felici e dolorose senza ricavarne sentimenti negativi. Narra la propria storia evitando di ergersi a protagonista o a vittima. Una storia ricca di episodi degni di essere rammentati perché dimostrano l'infinitezza delle risorse italiane, milanesi soprattutto.

Impararla comporta la conoscenza profonda di un signore della politica e della cultura che - complice chi scrive - è stato bistrattato gratuitamente, quando invece meritava rispetto e addirittura gratitudine.

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