Cultura e Spettacoli

La necessità di fotografare il male

Pierpaolo Mittica racconta un pianeta e uomini sfruttati. Sepùlveda spiega perché è una testimonianza irrinunciabile

La necessità di fotografare il male

È stata inaugurata sabato a Pordenone, alla Galleria comunale «Harry Bertoia», la mostra fotografica di Pierpaolo Mittica dal titolo Ashes/Ceneri. Racconti di un fotoreporter (a cura di Angelo Bertani e Naomi Rosenblum; aperta fino all’11 gennaio 2015): un titolo che fa riferimento ai devastanti effetti sociali e/o ecologici causati dallo sfruttamento degli uomini e dell’ambiente in varie parti del mondo. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il testo di Luis Sepúlveda che introduce le immagini della mostra (edito dal Comune di Pordenone).

Le fotografie di Pierpaolo Mittica possono essere ben definite da alcuni versi del poeta bosniaco Izet Sarajlic: «Sono tra quelli che ritengono/ che del lunedì si deve parlare il lunedì/ il martedì potrebbe essere già troppo tardi».

Ed è proprio pensando a quei versi che ho iniziato un viaggio attraverso le sue foto, un viaggio privo di ordine, molto personale, che comincia da un’immagine catturata in Bosnia Erzegovina nel 1997, e che dal bianco e nero urla il suo terribile discorso rivolto alla memoria dell’umanità.

La foto mostra in primo piano i resti di una macchina per scrivere e sullo sfondo le rovine della città distrutta. Guardando quella foto, la mia prima reazione è stata di esclamare che si trattava indubbiamente della macchina per scrivere del poeta Izet Sarajlic, e ancora adesso mi rammarico di non potermi sedere insieme a lui nella Salerno che tanto amava per chiedergli se quella era la sua «arma inutile che sparava parole/ nella notte più buia di Sarajevo».

Il viaggio prosegue verso l’aeroporto ancora fumante dopo i bombardamenti, sulla pista ci sono soltanto i resti di un aereo che non andrà da nessuna parte, non ci sarà una donna che si volterà sulla scaletta per l’ultimo saluto, e se lo farà il suo sguardo non sarà luminoso. Sarà come lo sguardo senza tempo di una bambola priva di occhi che Pierpaolo Mittica cattura nell’orfanotrofio di Pripyat, la città fantasma ucraina condannata fino alla fine dei giorni, fino alla fine della storia e degli uomini a essere l’orma funebre di Cernobyl.

Mi fa sussultare la registrazione dell’oblio che realizza quando si affaccia con la sua macchina fotografica dai resti di una finestra dell’Hotel Polessia e, tra le rovine, ci conduce a essere testimoni della solitudine di Elena, l’anziana abitante della Zona di Esclusione a Gomel, in Bielorussia, che guarda passare le sue oche immersa in una solitudine che non si misura con l’assenza di altre persone, ma con le macabre palpitazioni del contatore Geiger.

Quando cattura l’immagine della piccola Caterine, di nove anni, condannata da un cancro alla tiroide nel centro oncologico di Lesnoie Borovlyany, nei pressi di Minsk, ci costringe a prendere partito contro una visione irrazionale di quel feticcio chiamato progresso, e ci dice che è urgente avere un’opinione.

Allo stesso modo, l’arte fotografica di Mittica denuncia il mito della «crescita macroeconomica» in paesi come l’India, perché si basa sulla decrescita delle possibilità di vita degli abitanti della bidonville di Dharavi, su quelle migliaia di adulti e bambini che vivono dei rifiuti, per i rifiuti, i quali devono essere riciclati, recuperati, riutilizzati perché così esige l’insaziabile voracità del consumo occidentale.

Le immagini hanno la forza della contemporaneità, ci dicono che non dobbiamo attendere che la storia ufficiale passi al setaccio tutto ciò che invece dobbiamo fare urgentemente diventare parte della nostra memoria recente. Oggi, mentre scrivo queste righe, i piccoli schiavi del Bangladesh sono al lavoro. Oggi, in questo momento, migliaia di esseri umani di tutte le età, molti dei quali ciechi e malati di cancro, si stanno infilando nel cratere del vulcano Ijen, in Indonesia, per estrarne lo zolfo.

In un viaggio dai resti di una macchina per scrivere assassinata in Bosnia fino a Fukushima, Pierpaolo ci conduce attraverso la nostra stessa memoria e la rende più forte, più ostinata e più ribelle.

Le sue immagini sono il marchio d’identità della nostra epoca e, allo stesso tempo, un invito a far diventare parte della nostra memoria personale quell’altra memoria che ci mostrano: la dolente memoria contemporanea dell’umanità.

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