Cultura e Spettacoli

«Nell'Italia dei burocrati far fruttare i beni culturali significa avere tutti contro»

A suo modo anche Mario Resca è un tecnico, per di più laureato alla Bocconi. Un alto dirigente d'azienda («mondo al quale ora tornerò») prestato per tre anni alla politica. Nel 2009, fra un tripudio di proteste, l'allora ministro Bondi lo nominò Direttore Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Carica che tra pochi giorni passerà - questa volta nell'indifferenza generale delle stesse tricoteuses che allora aspettavano cadesse la sua testa - ad Anna Maria Buzzi, una ministeriale doc. «È bravissima. A gestire la burocrazia interna».
Tecnico che ha imparato presto a gestire la politica per evitare di essere impallinato («Hanno tirato giù Bondi, e ci hanno provato anche con me...»), nemico giurato della burocrazia - «è il male assoluto dell'Italia, inefficiente e corrotta, rallenta le decisioni e l'azione» -, Resca si presentò in Via del Collegio Romano con un curriculum manageriale impressionante: presidente di Confimprese, presidente di Italia Zuccheri, cda dell'ENI, del Gruppo Mondadori, di L'Oréal, di RCS e soprattutto, macchia imbarazzante di ketchup sulla camicia immacolata di vice-ministro di fatto della Cultura, amministratore delegato di McDonald's Italia. «Ed ebbi subito tutti contro: sindacati, sovrintendenti, ministeriali, accademici...».
I Settis, i Paolucci, i Montanari, i giornali di sinistra.
«Non accettavano, e non accettano, l'idea che il patrimonio culturale sia una ricchezza che può generare utili. Non accettavano che oltre a tutelare e conservare il patrimonio si possa anche valorizzare, cioè “vendere” al meglio i nostri tesori agli stranieri e agli stessi italiani, sfruttando al massimo la cultura dell'accoglienza e le risorse turistiche. Non accettavano che si possano far girare le opere d'arte come testimonial della bellezza italiana nel mondo. Non accettavano che qualcuno dentro il ministero usi la parola “marketing”, che per loro è un termine osceno, ma per il resto del mondo è una scienza esatta».
E lei l'ha applicata alla cultura.
«L'Italia ha 440 siti culturali, tra musei e aree archeologiche, escluse biblioteche e archivi. La maggioranza sconosciuti agli stranieri e anche agli italiani. Ecco, io ho provato a fare due cose. Uno: valorizzarli, cioè farli conoscere, per attirare più pubblico. Due: renderli più vivibili, offrendo servizi migliori, dalle toilette pulite alle caffetterie e ai ristoranti interni, portando i nostri musei ai livelli di ospitalità del resto del mondo. Perché vergognarsi a considerare il visitatore come un cliente da trattare bene per farlo tornare? Quando mi sono insediato ho visto i numeri delle biglietterie e mi sono chiesto: “Ma è possibile che i luoghi d'arte del Paese più ricco di arte sul pianeta abbiano meno visitatori di tutti gli altri?”. C'era qualcosa che non andava...».
E ora come va?
«Nonostante gli attacchi che mi hanno fatto, direi meglio. Mi ero prefissato un più 3% di visitatori nei nostri siti culturali il primo anno, il 5% il secondo e il 10% il terzo. Abbiamo superato le aspettative: più 16%, più 9% e più 12%. E se aumentano i visitatori, al netto di tante iniziative con entrate gratuite, aumentano anche gli incassi. Quindi più soldi per migliorare i servizi. Quindi più soldi da investire in comunicazione per attrarre altro pubblico. È un circolo virtuoso».
Comunicazione. Uno slogan era: «Se non lo visiti lo portiamo via», con il Colosseo smontato dalle gru.
«I professori si scandalizzarono, ma noi volevamo parlare alla gente normale, alla gente che davanti al bello si emoziona. E infatti la campagna funzionò benissimo. In questi anni ho girato i musei di tutto il mondo, e ogni volta rientravo in Italia frustrato pensando che là, con molto meno in termini di opere, attraevano molto più pubblico...».
Il suo successo più grande?
«L'accordo con Google per digitalizzare, a loro spese, un milione di testi delle nostre biblioteche di Stato per renderli accessibili, gratis, a tutti. E l'apertura in piazza Tienanmen di uno spazio museale dedicato al Mibac, dentro l'unico museo nazionale cinese. In questi giorni ospita la mostra sui capolavori del Rinascimento fiorentino: due ore di coda per entrare, per una media di 1600 visitatori al giorno. Ha idea di cosa significhi? Uno spot gigantesco per la nostra cultura davanti al pubblico più vasto che si possa immaginare: i cinesi. Se anche solo l'1% un giorno decidesse di visitare l'Italia...»
Il suo insuccesso più grande?
«Non essere riuscito a rifare le gare per il rinnovo delle concessioni dentro i musei, secondo le regole della libera concorrenza. Avrei voluto, dentro ogni museo, dagli Uffizi all'Archeologico di Napoli, il meglio della ristorazione, il meglio dei servizi di bookshop, il meglio delle guide multimediali. Aumentando l'appeal dei luoghi d'arte. Ecco, qui siamo ancora impantanati nella difesa corporativa, nelle posizioni acquisite, nelle cricche che rifiutano il mercato».
Mecenatismo.
«In Italia è un disastro: all'estero, grazie alla defiscalizzazione, fanno cose bellissime. Da noi i privati non possono fare nulla. E dato che lo Stato da solo non ce la fa a gestirlo, il patrimonio culturale cade a pezzi».
Sponsorizzazioni.
«Sarebbero un aiuto grandissimo. Invece da noi sono viste come il diavolo. Ha visto com'è finita con Della Valle che voleva restaurare il Colosseo, in cambio dell'uso dell'immagine? Impallinato».
Lei ha lavorato con tre ministri. Sandro Bondi.
«L'ha fatto fuori il Palazzo, la casta ministeriale, strumentalizzando in maniera ignobile il crollo di un muretto a Pompei, un posto dove ogni giorno cade qualcosa».
Lui però ha fatto di tutto per farsi cacciare.
«Era in un periodo di difficoltà».
Giancarlo Galan.
«A volte mi chiedo come faccia ad arrivare certa gente in certi posti».
Lorenzo Ornaghi.
«L'ho visto tre volte al Ministero.

No, scusi, quattro».

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