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In nome della libertà, fermate le femministe Parola di femminista

In nome della libertà, fermate le femministe Parola di femminista

E se il femminismo oggi - il femminismo che si ritrova in piazza urlando «Se non ora quando?» e che si riconosce nelle articolesse di Concita De Gregorio e nel salotto di Gad Lerner - fosse la forma moderna dell’oscurantismo? È la tesi di una donna, filosofa, chiaramente progressista e nient’affatto tenera con Berlusconi, anzi parecchio imprigionata nella retorica sul Caimano. Difficile, dunque, accusare Valeria Ottonelli di cedimenti al maschilismo. Eppure, nel pamphlet fulminante La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista (Il Melangolo, pagg. 126, euro 12), la Ottonelli (o «il», come vuole il neo-linguaggio sobrio?) si dedica a smontare scientificamente l’armamentario pseudo-culturale delle crociate d’inizio millennio. Le femministe, appunto.
Che sono crociate anzitutto contro le altre donne, contro le infedeli della religione mondana femminista, contro donne libere e magari spregiudicate che non s’inchinano alla «morale del sacrificio e dell’eccellenza» che si vuol imporre loro. È questa, per Ottonelli, la barbarie del femminismo ritornante: il suo sgorgare da «un giudizio morale sulla buona vita» dilatato a dogma sociale, fino alla «trasformazione intima di tutti i cittadini». Sono i toni con cui l’allora direttrice de L’Unità De Gregorio additava le Olgettine, o qualunque ragazza avesse frequentato liberamente libere feste, tutte ovviamente con «borse firmate grandi come valigie» o «occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto», che manifestamente non sono come «le altre donne». Non sono «vere» donne: è più di un «razzismo» intellettuale, è un razzismo ontologico, per cui queste singole donne degenerate non incarnano la corretta «idea» di donna. Una matrice platonica, anti-democratica, che Ottonelli rintraccia anche nel documentario-manifesto Il corpo delle donne di Lorella Zanardo. Il quale propone un’intemerata contro l’immagine femminile televisiva e mediatica, che appunto non rappresenterebbe la vera donna: «Dietro a questa richiesta di realismo e veridicità c’è in realtà un giudizio morale perentorio», quello per cui «le donne che si sacrificano, studiano, lavorano, fanno figli», sono «più reali» delle soubrette. Le quali, letteralmente, non sono «se stesse», ed infatti la Zanardo procede con la condanna irrevocabile delle donne che ricorrono alla chirurgia estetica, che «nascondono il loro vero volto». Scordando che «uno dei tratti distintivi dell’umano è proprio il fatto di sottoporre il proprio corpo a iscrizioni e modificazioni, anche drastiche, che ne plasmano i connotati secondo canoni e paradigmi culturali».
La chirurgia estetica è solo uno dei mille modi con cui le persone intervengono liberamente sul proprio corpo, che possiamo non apprezzare, ma in nome di cui non possiamo svalutarne addirittura la realtà personale, almeno in una democrazia liberale. Possiamo farlo, sì, ma postulando «una vera e propria gerarchia dell’essere, coniata su una retorica e un’estetica di marca essenzialmente tradizionalista, se non fascista». La stessa che l’avvocato e parlamentare di Futuro e libertà di Giulia Bongiorno dispensò alla piazza di «Se non ora quando» nel febbraio 2011, alludendo alle ferite che le «altre», le donne malriuscite e immorali, infliggerebbero a quelle «vere»: «A ciascuna di loro - nel momento in cui le donne vengono scelte e premiate in base non al merito ma a qualcos’altro che con la professionalità, l’impegno o l’intelligenza ha poco o nulla a che fare - è stata riversata addosso l'inutilità del suo sacrificio».
Ecco il retropensiero moralistico e, alla radice, totalitario, delle femministe odierne, quello per cui il loro affannarsi non è «indirizzato solo al conseguimento di fama, ricchezza e potere sociale» ma anche alla «celebrazione pubblica delle loro straordinarie doti di intelligenza, forza di volontà, determinazione e ambizione come l’unico standard accettabile di vita degna di essere vissuta». La discriminazione ontologica tra donne si fa autoritarismo etico e infine incontrollato «istinto totalitario», cresciuto come sempre, come ai suoi esordi giacobini, sul culto della «virtù come fondamento dell’ordine sociale».

E il marchio d’infamia impresso sulla pelle di chi insegue altre prospettive di vita.

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