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Quel selfie va abolito. Anzi, no. La tenzone tra puristi e innovatori

I prestiti linguistici sono segno di impoverimento o di vitalità? Tutto dipende dall'uso che se ne fa

Quel selfie va abolito. Anzi, no. La tenzone tra puristi e innovatori

Si sono aperti ieri, e continueranno oggi a Firenze (Palazzo Vecchio e teatro della Pergola) gli Stati generali della lingua italiana nel Mondo. Si è discusso e si discuterà di moltissime cose - tra l'altro risulta che l'italiano sia uno degli idiomi più studiati del pianeta - ma a farla da padrone è la questione dei neologismi, moltissimi mutuati dall'inglese che stanno «invadendo» la nostra lingua.

Il tema non è nuovo. Anche perché l'italiano è sempre stato aperto ad influenze straniere. Sedimentate nel tempo, si trovano anche nei termini colti. Tanto per fare qualche esempio: «ghermire» è un regalo del longobardo, «chimica» dell'arabo (passando per alchimia), «sigaro» dallo spagnolo che cercava di scimmiottare il vocabolo maya «jigar». Men che meno qualcuno ha da ridire se un signore allaccia l'alamaro del suo tabarro. L'espressione sembra italiano d'antan (ops francesismo) eppure il primo sostantivo arriva dallo spagnolo e l'altro chissà da dove. E nessuno si sogna ormai di considerare aliene parole come tram, terminal, rock o baby sitter (anzi è bambinaia a suonar strana) che sono tutte «importazioni» nude e crude dall'inglese. Certo il ritmo d'ingresso sembra essersi alzato negli ultimi anni. E così i linguisti si dividono tra chi vorrebbe innalzare solide barriere d'ingresso e chi vuol praticare una politica di «cittadinanza» più o meno facile. Ad esempio Gianluigi Beccaria, che tra l'altro ha pubblicato da poco L'italiano in 100 parole (Rizzoli) ha dichiarato in questi giorni: «L'italiano chiamato da Dante la lingua del sì rischia di trasformarsi nella lingua dell'okay». Gli ha fatto eco la scrittrice Dacia Maraini: «Noi italiani, purtroppo, spesso maltrattiamo la nostra bellissima lingua. C'è in giro una specie di servilismo linguistico, forse anche a causa dei computer, per cui ogni cinque o sei parole italiane ne infiliamo una inglese». E ha stilato persino un elenco dei termini da bandire da welfare («un ministero è stato chiamato così») a zapping , da exit poll a premier , fino a location («l'uso debordante di questo neologismo fa proprio sorridere»).

Decisamente più moderato e aperto al nuovo il presidente della Accademia della Crusca Claudio Marazzini, come ha spiegato in svariate interviste: «Bisogna distinguere: ci sono parole straniere che sono assolutamente necessarie, sono soprattutto termini tecnici. In altri casi si tratta di snobismi e questi vanno assolutamente evitati. Poi ci sono termini come selfie che la Crusca ha accolto, pur con tutti i loro limiti, come neologismi». Marazzini non si fa spaventare nemmeno dal linguaggio abbreviato dei social network (perdoneranno i puristi se non scriviamo reti di socializzazione): «Non scandalizziamoci se i ragazzi se i ragazzi scrivono ke con la kappa usando il telefonino, lo facevano già i monaci medievali. Non sono certo gli sms o Twitter le cause della crisi dell'italiano». Non lontanissimo da queste posizioni Massimo Arcangeli, italianista che dirige l'osservatorio della lingua italiana Zanichelli. Dice al Giornale : «Il problema dell'inglese è quando lo si usa solo nella speranza di sembrare brillanti e, sotto sotto, nella speranza di farsi capire da pochi. È il modo in cui spesso lo usano i politici. Quanto alla contaminazione in sé, se non è semplice snobismo non è un problema. L'inglese stesso è pieno zeppo di parole che derivano dalle lingue romanze e proprio dall'italiano, per cui...».

Quello che è certo è che la tenzone della lingua tra puristi e non difficilmente si placherà. A dominare comunque sarà sempre l'uso. Così la fascistissima frittata ha sconfitto l'omelette ma nessuno si è sognato, Duce o non Duce, di sostituire bar con mescita o chiamare i marron glacé castagne candite. Per le lingue vive alla fine funziona così.

E l'italiano lo è.

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