Cultura e Spettacoli

«Le paure del mio Gadda: tasse, matrimonio, sinistra»

A trent'anni dalla morte escono le lettere dirette a Piero Citati, allora suo giovane editor e confidente. In cui parla di soldi, donne, omosessualità. E dell'orrore per ogni ideologismo

«Le paure del mio Gadda: tasse, matrimonio, sinistra»

Un'amicizia formidabile tra due uomini di penna e di pensiero. Una vibrazione profonda tra menti affini, non comuni, che ancor oggi, a trent'anni dalla scomparsa di Carlo Emilio Gadda, Pietro Citati evoca nel racconto di quel sodalizio, fisicamente disciolto nel '73, alla morte dell'Ingegnere, tuttavia inestinguibile nell'unico sacrario che conti, tra la mente e il cuore. «Non ho mai più conosciuto un uomo così grande», dice lo scrittore che doma l'emozione del ricordo abbassando lo sguardo sul divano giallo della sua elegante casa romana, ai Parioli. Le 44 lettere che Gadda gli spedì, dal '57 al '69, sono ora raccolte in Un gomitolo di concause (Adelphi, pagg. 239, euro 14, a cura di Giorgio Pinotti). E gettano una luce nuova sul più grande autore del nostro Novecento che col suo giovane editor e confidente, conosciuto nel '55 quando Citati recensì sullo Spettatore italiano il gaddiano Giornale di guerra e di prigionia, parlava di tasse, cinema, cibo, editori - avvoltoi che vogliono la «ghiotta preda» cioè lui, gite di relax e amici come Moravia e la Morante che una volta, a una cena, l'hanno «sfiancato, rintronato e vilipeso».

Che tipo di amico fu, per lei, Gadda e come potremmo definire la vostra amicizia?
«Un'amicizia molto singolare: io avevo 27 anni, lui oltre 60. Aveva molto affetto per me, ma non era lui che si occupava di me, ero io a occuparmi di lui. Mi telefonava, spietato, ogni giorno all'una e mezzo, mentre ero a pranzo. La mia carne gelava e dopo una ventina di minuti era una suola».

Gli amici, però, si educano: gli ha mai detto nulla?
«Mai educato nessuno. Il fatto è che per dieci-dodici anni i suoi libri sono passati per le mie mani. Mi occupavo di tutte le sue questioni personali, tasse escluse: aveva il suo commercialista. Aveva una tremenda paura di non pagarle correttamente e, un mese prima di pagarle, spariva. Fui io a farlo collaborare al Giorno e spesso mi chiedeva: “Che lei sappia, quanto ho guadagnato?”. Era poverissimo».

Di recente si è parlato d'una pretesa omosessualità dell'Ingegnere. Quale rapporto ebbe Gadda con le donne?
«Non era misogino, né omosessuale. Ma temeva sempre che qualche donna lo volesse intrappolare e prenderlo come marito. Temeva soprattutto Gianna Manzini e Maria Luisa Spaziani, quest'ultima grande cacciatrice di vecchi come Ungaretti e Cecchi. Per le donne nutrì grande affetto, ma temeva la famiglia come istituzione. Tuttavia, aveva un interesse psicologico per il mondo omosessuale, del quale si faceva raccontare da Goffredo Parise, sposato ma con un lato omosessuale. Forse temeva di trasformare questo suo interesse in qualcosa di diverso. Con Pasolini, per esempio, non parlava di tali questioni: con lui si seccava, perché era un suo imitatore. E lui detestava gli imitatori. Aveva più simpatia per Arbasino, omosessuale elegante che non cacciava proletari, ma signori. Gadda aveva un'inclinazione per i giovani: furono loro, i poco meno che trentenni Arbasino, Parise, Testori, a decretare il successo del Pasticciaccio».

Che cosa le piaceva di più, in Gadda?
«Il senso tragico che emanava da tutto, stando a lui. Aveva il senso del male universale. Seguirlo è stato affascinante: gli davo affetto ed ero molto efficiente».

Nelle lettere indirizzate a lei spicca certa vita intellettuale romana, o meglio «il baccano romano» di fine anni '50, con la Morante «che urla e pontifica troppo» e Moravia che non capisce Manzoni. Quale ricordo ha di quelle «verbose facilonerie Trasteverine»?
«Lui non li sopportava. Adorava Manzoni e I promessi sposi, per cui stroncò Moravia. Non sopportava il loro sinistrismo, il loro ideologismo, le idee fatte. Con la Morante ebbe in comune un grande amore per Dostoevskij, ma Gadda aveva una grande cultura filosofica, conosceva Platone e Leibniz, detestava i luoghi comuni. Tra gli italiani ammirava Montale, amava Ossi di seppia. E aveva amicizia per Attilio Bertolucci, uno dei pochi che amasse il Pasticciaccio».

Un aneddoto particolare?
«Aveva ossessioni insensate... Il Pasticciaccio fu acquistato da Rizzoli per farne un film, poi affidato a Pietro Germi e a Gadda dettero un milione, cifra irrisoria nel '62. Siccome la sede della Rizzoli era un po' fuori Roma, gli venne in mente che volessero tendergli un agguato, per riprendersi i soldi che gli davano. Così mi chiamò, per dirmi: “Se non ritelefono entro le 19, chiami i Carabinieri”.

Il cinema non gli interessava: rispettava solo la letteratura e la scienza».

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