Cultura e Spettacoli

PERCORSO Foto, quadri, sculture ma anche oggetti che ricordano i lager

I l Museo della Follia a Matera è una sfida. Una sfida dei giovani contro i vecchi. Del bene contro il male. Nasce a Salemi dopo il Museo della Mafia oggi rimasto ostaggio della mafia. Avrebbe dovuto arricchire quella città, con le iniziative nate in occasione del 150° della Unità d'Italia di cui Salemi fu la prima capitale. Capitale di un sogno. Ma non è stato possibile realizzare quel sogno. Le forze del male hanno prevalso. E la mafia, uscita dal museo, ha vinto. Questa volta in modo beffardo. Non sostituendosi allo Stato. Ma sostituita dallo Stato. Che occupa abusivamente il Comune attraverso tre commissari che, senza democrazia, hanno sospeso ogni attività creativa, su incarico diretto del ministro degli Interni. Volevano occupare anche la follia. Ma la follia non si lascia occupare, non accetta regole e commissariamenti. Io, sconfitto ma non rassegnato, meditavo la risposta, avendo perso ogni fiducia nelle istituzioni e vedendole in balia di mistificatori che non combattono ma inventano un nemico, per affermare il loro oscuro potere.
Con questo stesso metodo, in fondo, nacquero i manicomi, non per isolare i pazzi dai sani, e tantomeno per curare i malati, ma per piegare gli irriducibili, per impedire ai diversi di essere diversi, per non consentire che qualcuno si muovesse fuori dalle regole stabilite. «Una feroce forza il mondo possiede...». È per questo, per quanto di anomalo, di originale, di creativo, d'individuale l'arte rappresenta, che si è sempre evidenziato e analizzato il nesso tra arte e follia. In questi percorsi sarebbe stato impensabile immaginare un rapporto tra mafia e follia, se il potere non avesse manifestato il suo volto attraverso la diabolica invenzione della mafia, non quella reale ma quella immaginata, sospettata, inventata, per consolidare le sue forme attraverso l'affermazione di uomini meschini e vili. I primi a non crederci e a subire una ingiustizia e a patire una violenza, misurata per la prima volta negli anni dello studio e delle illusioni, sono stati i giovani che hanno lavorato con me, pieni di vita e di entusiasmo, a Salemi.
A poca distanza da Salemi ne ho incrociato uno: Cesare Inzerillo. Che ritengo, non meno di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino, un dono della Sicilia all'Italia e il cui solo impegno basta a spingere nell'angolo la mafia e lo Stato che la garantisce dandole certificati di esistenza. Il racconto di Inzerillo è tragico, prima che drammatico, ma è potentemente poetico. Una poesia del male, della malattia, della morte, proprio come quella del Caravaggio, del Caravaggio siciliano del Seppellimento di Santa Lucia e della Resurrezione di Lazzaro. Inzerillo parte da lì, passa attraverso le catacombe dei Cappuccini, tra le mummie di Burgio, i morti viventi di Bufalino e la Classe Morta di Tadeusz Kantor. Ne deriva una umanità che è sempre umanità di fantasmi e che, nella sua visione, stabilisce, al di là della vergogna dello Stato, con il canto libero e notturno della sua creatività, una continuità tra il Museo della Mafia e il Museo della Follia.
A Matera entriamo, come si può immaginare, nello spazio ideale del Convicinio Sant'Antonio, un complesso di Chiese rupestri nei Sassi dove, per secoli, sono transitate esistenze marginali. Immagini, documenti, oggetti raccontano, a latere della umanità evocata da Inzerillo, le condizioni umilianti e dolenti dell'alienazione, le prescrizioni e le cure, i letti di contenzione. È l'introduzione al museo. Poi si entra nella Stanza della Griglia. E si incontrano le persone. Uomini e donne come noi, sfortunati, umiliati, isolati. E ancora vivi nella incredula disperazione dei loro sguardi. Condannati senza colpa, per il solo destino di essere diversi, cioè individui. Inzerillo e Marilena Manzella te li mettono davanti, questi carcerati, con la divisa della loro malattia, che è la malattia della condizione umana e della psiche, con i segni di ciò che le è accaduto, degli incontri e delle occasioni. Inzerillo dà la traccia, evoca, inevitabilmente Sigmund Freud e Michel Foucault, a cui fisicamente assomiglia, e apre la strada a un inedito riconoscimento, a una poesia della follia. Così, stanze, muri, pareti dell'ospedale psichiatrico abbandonato di Teramo entrano nell'obiettivo di Fabrizio Sclocchini che rianima quegli spazi desolati con omaggi floreali di delicata poesia come a ricordare quelli che vi furono, confinati, rimossi, cancellati. Poi appare un ospite solitario. Fratello delle mummie di Inzerillo, come tutti presente-assente in un pigiama a righe, tranquillo e sfigurato. È uno di tanti, immaginato da Gaetano Giuffrè.
Poi c'è Grazia Cucco, indiavolata, con le sue allegorie e i suoi paesaggi, ossessioni di una ragazza che ha frequentato chiese e conventi dove stanno, prigioniere dell'anima, folli di Dio, suore vigilate da prelati, che erano una volta felici nel loro giardino delle delizie, fra animali fantastici. Ma subito si ritorna nella fabbrica del male con i volti scuri e gli sguardi senza speranza degli umiliati pazienti di Vincenzo Baldini. Nessuna città, nessuno spazio li accoglie. Stanno nei «non luoghi» della loro mente. Poi arriva un collega visionario di Cesare Inzerillo: Lorenzo Alessandri con la serie di Camere con sogni e visioni di un mondo parallelo. Tra le più straordinarie esperienze narrative della pittura italiana negli anni sterili nei quali la figurazione era bandita, l'estro di Alessandri non è soltanto una delle rare testimonianze del surrealismo italiano ma l'euforia dell'alienazione, il protocollo della follia come manifestazione di libertà e contro le regole dell'habitat artistico torinese.
Un classico della follia è Gino Sandri che, per una intera epoca, disegnerà i suoi fratelli nell'universo chiuso del manicomio con dolente partecipazione, con rassegnazione e una urgenza di non far mancare all'appello della vita uomini che sono vissuti fuori dalla storia, non rilevati. Il manicomio, più del carcere, è il luogo dei rifiuti dove vengono chiusi quelli che non si adeguano, che non sono disposti ad accettare l'ordine del mondo, quelli che urlano la loro indisponibilità. Sandri, uno di loro, li osserva. Su quei volti non c'è mai un sorriso, sono individui che hanno perso la loro identità, e la matita di Sandri li carezza, li rianima.
Diverso il caso di Carlo Zinelli, che non guarda la realtà che vede, che non illustra, che non documenta ma trasferisce sulla carta i pensieri di un'anima turbata, le ossessioni, le ripetizioni, le processioni. È un puro visionario, dal quale escono archetipi invariati da circa diecimila anni. Il malato folle, che ha la ventura di esprimersi, si pone davanti a forme sempre nuove e insieme ripetitive attraverso le quali si documenta e si riconosce il rapporto tra follia e arte.
Dai manicomi era difficile uscire, ma nei manicomi era ancora più difficile entrare. Per questo è così straordinaria la serie di ritratti fotografici di Giordano Morganti che, mentre impudicamente svela la condizione dei malati, li innalza a nuova e inedita dignità formale, con folgoranti primi piani o taglia a figura intera contro un fondale neutro. Questi non sono più anonimi ma personalità distinte; e, davanti ai loro corpi smagriti, offesi, costretti a pagare per non avere fatto nulla, è stata concepita la Legge Basaglia.
Sulle ceneri di questo mondo di emarginati, di abbandonati, di umiliati si pone infine Roberta Fossati che, entrata nell'ospedale psichiatrico di Volterra, ha ritrovato la voce soffocata di un'anima sepolta: ed un lungo lamento che resta documento e non diventa poesia se non nell'emozione che lo vivifica in chi ne ritrova la traccia sul muro. Così, chi non ha avuto la forza di far sentire il proprio urlo disperato oggi, troppo tardi, lo fa arrivare alle orecchie di una donna sensibile che lo trasferisce in immagini silenziose.
Il Museo della Follia non è una storia della follia. È una serie di suggestioni, di paure, di prepotenze che dovranno riguardare anche noi, protetti e attratti dai matti. D'altra parte, non potendone fare a meno, li abbiamo fatti diventare artisti.

Se la follia vive nei sogni non ci possiamo liberare di lei.

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