Cultura e Spettacoli

Potere, soldi e copioni Così «Karoo» svela i segreti di Hollywood

Steve Tesich, sceneggiatore da Oscar, nel suo romanzo racconta il lato grottesco della mecca del cinema. Con penna magistrale

«E, mentre facevo l'amore con lei, il riscrittore in me riscriveva la sceneggiatura della sua vita. Stavo riscrivendo gli eventi futuri, in modo che ci fosse un lieto fine per tutti. Stavo editando ogni cosa». Così il personaggio Saul Karoo, protagonista di Karoo (Adelphi, pagg. 460, euro 20, trad. di M. Z. Ciccimarra), esplicitamente diventa, circa a metà della sua storia, Steve Tesich, ovvero l'autore, ovvero uno degli sceneggiatori più originali di Hollywood. Lo sceneggiatore che nel 1979 convinse Peter Yates a narrare in All American Boys le vicende di quattro ciclisti nell'annuale maratona «Little 500» - uno dei quali corre su una bicicletta tricolore, parla italiano ai genitori, sogna Cinzano, idolatra Gimondi e ha un gatto di nome Fellini - e ci vince un Oscar. Lo sceneggiatore che nel 1986 incalzò John Badham finché realizzò Il vincitore , storia di due fratelli che si iscrivono alla più dura gara ciclistica d'America, la tre giorni «Hell of the West» tra le montagne del Colorado. Quello che rese Il mondo secondo Garp una indimenticabile sequenza di immagini firmate George Roy Hill.

Quello sceneggiatore che arrivava tardi a pranzo con Arthur Penn - che nel 1981 diresse il suo dramma semiautobiografico Gli amici di Georgia - dopo aver incontrato una ex compagna di liceo nella hall del suo albergo e averci improvvisato una reunion: perché «Quando sei uno scrittore e cominci a negarti le meraviglie che il caso ha in serbo per te, per le mani ti rimane soltanto dello squallido realismo». Il protagonista del film di Penn si chiama Danilo ed è immigrato con i suoi genitori dalla Jugoslavia negli Usa, Paese di cui costruisce un magistrale catalogo di storia sociale del decennio dei Sixties, tra Nixon e Vietnam, LSD e JFK. Più o meno la storia di Stojan «Steve» Tesich, nato a Uzice nel 1942 e passato nella tarda adolescenza dallo splendore rurale della Mitteleuropa all'acre odore sulfureo della 143esima East Chicago.

Quello sceneggiatore morì prematuramente nel 1996, ma fece in tempo a concludere appunto Karoo , uno dei più ficcanti ed esilaranti romanzi su Hollywood mai scritti. In verità, il paragone andrebbe fatto con i film, magari con I protagonisti di Altman, Barton Fink dei Cohen, Il prezzo di Hollywood di George Huang, Sesso e potere di Barry Levinson o il romanzo poi film Get Shorty di Elmore Leonard.

Il romanzo, pubblicato postumo nel 1998 e arrivato solo ora in Italia, ci riporta nel 1989: il protagonista è uno script doctor, che a Hollywood significa editor aggiustaossa per sceneggiature traballanti, fedele alla linea che «Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate», come diceva Hitchcock. Se vi è subito venuto in mente il Joe Gillis di Viale del tramonto , sappiate che qui l'antagonista dello sceneggiatore è il marcio e dittatoriale sistema dei tycoon, incarnato dal corrotto e malvagio Jay Cromwell. Cromwell è «cento per cento certezza», un demonio che ti seduce portandoti a essere quello che lui vede in te - «Essere una puttana non basta, devo essere una Salomè» - e che non ha nemmeno il buon gusto di essere un uomo di cattivo gusto come il resto degli altri produttori hollywoodiani che Karoo conosce così bene: a voi decidere se un tipaccio del genere sia più o meno pericoloso di Norma Desmond.

Se è fortunato, Karoo riscrive una volta sola, ma ci sono casi in cui si ritrova per le mani uno scritto già trattato, che nel frattempo è passato per le mani di altri infiniti scribacchini e che ora si è definitivamente “raggrumato”: inevitabile che gli venga il blocco del riscrittore e che somatizzi. Non riesce più a ubriacarsi, non riesce a divorziare, non riesce a stare con suo figlio, soffre di «sindrome della soggettività»: tutto resta suo per un'ora, un giorno al massimo, poi la mente va in orbita e persone, idee, affetti, lettere strazianti vengono vivisezionate da tutti i punti di vista possibili, finché per lui non significano più niente, non si associano più ad alcuna emozione.

Affezionarsi a Karoo/Tesich è un attimo: la sua storia è così paradossale che siamo certi sia frutto di pura invenzione. Finché non si va oltre la quarta di copertina, si fa qualche ricerca e si scopre che il romanzo è proprio a chiave, che svela gustosi retroscena della Mecca del Cinema almeno quanto Hollywood Babilonia ma con una scrittura magistrale. E che forse Tesich non scrisse un'autobiografia solo perché né le major né gli indipendenti glielo avrebbero mai perdonato. Un branco di sottili manipolatori, questo pensava Tesich di Hollywood. Ben consapevole però che quell'industria milionaria fosse solo uno specchio dei tempi tra i più potenti: «La parola libertà viene usata senza responsabilità e libertà e morale sono diventate due idee prive di qualsiasi correlazione» dichiarava in una intervista nei primi anni Novanta. «In migliaia di anni di civilizzazione possiamo dire di esserci liberati da tutto, storia, religione, memoria.

Ma invece avremmo dovuto conservare tutto e ogni volta ripartire da tutti gli eventi che ci sono accaduti come genere umano».

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