Cultura e Spettacoli

Quando l'eugenetica (cattiva) era simbolo di vero progresso

Quando l'eugenetica (cattiva)  era simbolo di vero progresso

Inveire contro. Ecco cosa troveremmo alla voce «Eugenetica» se potessimo consultare un aggiornato Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert. Trattasi infatti di concetto-tabù, come tutte quelle parole (selezione, coltivazione) d'ascendenza agraria e di sapore fascistoide: un flirtare tra scienza e biopolitica che ridesta lo spettro hitleriano. Eppure, come ricostruisce ottimamente la giornalista e storica Lucetta Scaraffia nel volume Per una storia dell'eugenetica. Il pericolo delle buone intenzioni (Morcelliana), a quei tempi essere eugenisti era il massimo del progressismo. A cavallo tra Ottocento e Novecento, all'alba della “morte di Dio”, per la spaesata intellighenzia convertitasi al positivismo l'eugenetica era tentazione irresistibile, almeno fino ai vari patatrac totalitari. Il termine, coniato dallo statistico Francis Galton (cugino di Darwin), condensa fermenti che dall'Inghilterra s'irradiavano in Europa. Il trionfo della tecnica andava surrogando le certezze andate in frantumi. Medici, genealogisti e philosophes mescolavano gli studi sui piselli di Mendel in un brodo di coltura pseudoscientifico da cui nasceva una nuova religione civile: coltivare una superumanità. Certo, la storia della liaison tra Scienza e Bene è più anziana: Platone, primo eugenista, voleva le donne in comune, avrebbe abolito la famiglia (troppo egoista), auspicava accoppiamenti solo tra persone smart e i figli deformi li avrebbe gettati nel burrone. Un bel saggio di Oddone Camerana in coda al libro rievoca la temperie letteraria affascinata dalla giovane «antropotecnica». Aldous Huxley e Èmile Zola hanno innaffiato ad arte il nuovo Eden post-secolarizzazione. Sempre in quel periodo la scienza svestiva i camici e lasciava i laboratori per farsi buona novella filantropica e business. E Louis Pasteur e Robert Koch erano i nuovi padreterni da incensare.
In quel calderone ribollivano le ansie di degenerazione, i cupi scenari neomalthusiani, con predizioni (sballate) d'implosione del pianeta. C'erano i nazionalismi e i razzismi, con solennità paganeggiante s'incrociavano i caratteri per creare la specie eletta, mentre i debolucci erano invitati a non riprodursi quando non sterilizzati (fino al cortocircuito hitleriano: eutanasia). L'Occidente stanco e orfano del cielo si saziava di quell'utopia.
Più o meno sbandati, più o meno nichilisti, ma eugenetici erano un po' tutti, la biologia del miglioramento non era né di destra né di sinistra, né atea né cattolica. Il Nobel per la medicina Charles Richet nel 1919 scriveva senza troppe remore: «Non vedo nessuna necessità sociale di conservare bambini tarati», il pio Agostino Gemelli era un eugenetico entusiasta, George Bernard Shaw inneggiava al ministero dell'Evoluzione. Il motivo è semplice: la modernità allora era quella. Le sterilizzazioni erano all'ordine del giorno nei liberali States, nella socialdemocratica Svezia, nell'immacolata Svizzera. Femministe come Ellen Kay e Margaret Sanger le contavano tra le pratiche della donna emancipata. Abbondantemente adoperate anche per motivi di cassa: disabili e criminali erano un fardello per il Welfare. E così si va avanti fino agli anni '70. Calcoli che ora sappiamo esser grezzi, anche perché schiacciare le qualità sui cromosomi è complicato. Ma confusioni e appiattimenti restano. Dietro l'etichetta eugenetica si ficca tutto, dall'amniocentesi a Pol Pot. Oggi ad esempio si dice che l'eugenetica non sia più di Stato ma “liberale”: una scelta soppesata per fatti propri e offerta dal progresso. Con annesse querelles: da una parte gli scienziati che s'infuriano al sentir “umanizzare” i loro settori; dall'altra un altrettanto infuriato Jürgen Habermas che tuona contro le biotecnologie liberticide. E mentre i salotti buoni d'Europa si scervellano sull'ampiezza del concetto di “terapeutico”, in Cina c'è l'eugenetica statale del figlio unico, mentre negli Usa basta sfoderare il portafogli per comperare superbimbi à la carte col colore degli occhi favorito.
Imbarazzi che germogliano dopo la perdita dell'«aura» della nascita, riproducibile tecnicamente. Il problema è dover scegliere che cosa sia l'uomo (e quali malattie rendono la vita “indegna”: l'Aids? la nevrosi? l'obesità? Zeno Cosini? Homer Simpson?). Così capita ogni qualvolta la scienza sposta più in là l'asticella tra caso e decisione. Resta poi l'incognita-ambiente, per cui, alla fin fine, varranno più i geni o l'educazione? Meglio la selezione prenatale o la musica New Age già dal pancione? Tanti dubbi e un'unica sicurezza. La nascita resta comunque appesa alla volontà dei genitori. E essere bambini desiderati è una fatica.

Che non si sceglie.

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