Cultura e Spettacoli

Quando il videogame diventa una filosofia

Harold Ryan, genio del virtuale che ha inventato Destiny, ci spiega perché milioni di persone si collegano per giocare: "La nostra comunità è la base per creare un nuovo genere umano"

Quando il videogame diventa una filosofia

In fondo non bisogna arrivare al 2714 per capire che il mondo avrebbe bisogno di una Guardiano. Così Harold Ryan gliene ha dato uno e se Destiny in poco più di un mese è diventato un fenomeno del Pianeta Terra, è chiaro che c'è un mondo - quello dei videogame - che ormai è andato oltre se stesso: è quasi filosofia. In tutto questo Harold Ryan è il vero e proprio Guardiano di un futuro che stiamo stravolgendo giorno dopo giorno, cambiando la realtà che visionari come Isaac Asimov avevano cominciato ad ipotizzare circa 70 anni fa, ma per i secoli a venire. Un divenire ad episodi, come quello disegnato in uno di quelli di Star Trek del 1967 in cui i pianeti Eminiar VII e Vendikar si combattevano decidendo le vittime al computer. Una guerra incredibile si chiamava. Appunto. In un certo senso dunque siamo già al 2714 dopo Cristo e quello che stiamo vivendo nella virtualità di una console non è altro che la proiezione di quello che ci aspetta. Della prossima Umanità.

Ryan, il Guardiano appunto, un po' lo ha immaginato quando disse che voleva costruire «l'universo che aveva sempre sognato»: certamente per soldi, visto che è il presidente dello studio Bungie che con Activision ha lanciato il progetto di questo videogioco che ha cambiato le regole del gioco, mescolando un genere grezzo come lo sparatutto con la poesia dei role-playing game. Ma soprattutto, dice lui, «per passione, perché senza quella non si può cambiare il mondo». In tutti i casi i fatti gli danno ragione: Destiny , costato 500 milioni di dollari in dieci anni di lavoro, ha fatto un utile di 500 milioni di dollari solo il primo giorno della sua uscita, il 9 settembre. Ed è anche entrato di diritto nella nuova ala del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano dedicata allo spazio, allestita con il contributo di Samsung e inagurata il 28 ottobre. C'è perfino un pezzetto di luna lì dentro, il nostro punto di partenza verso l'universo sconosciuto.

Harold Ryan quel giorno era lì, per spiegarci e spiegare i record del nuovo mondo fatto community, «perché un po' il successo ci ha preso di sprovvista: non potevamo immaginare che ogni giorno una media di 3 milioni e duecentomila persone si collegasse sul web per giocare almeno tre ore consecutive». Per i giocatori seriali questo vuol dire aggiornamenti e aggiustamenti progressivi e nuovi schemi in arrivo. Perché - e questo vale per i non videogiocatori - non tutti sanno che Destiny è un gioco in continua evoluzione, cominciando dalla trama: siamo nel 2714 appunto, e della Terra colonizzatrice dello spazio è rimasto un ultimo avamposto che lotta contro gli alieni per evitare l'estinzione. Il Guardiano è l'ultimo baluardo, i videogiocatori gli attori di una guerra giusta, che va combattuta dalla parte del bene. E qui sta la filosofia, niente affato virtuale: «L'idea che abbiamo avuto di questo universo parallelo - dice Ryan - è che dev'essere un posto positivo, il luogo dove ognuno di noi vorrebbe vivere. E che ognuno di noi vorrebbe difendere. Forse proprio qui sta il punto: davanti una minaccia così globale, così definitiva, gli uomini capiscono il valore del proprio pianeta e si alleano per difenderlo. La community di Destiny potrebbe essere considerata come un nuovo tipo di genere umano». Eppure lo si fa per divertirsi, ovviamente, «perché questo dev'essere lo scopo primario di un videogame». Ma lo si fa comunque con un istinto molto umano, dove in questo caso la violenza non è altro che legittima difesa: «Siamo stati molto attenti a questo, soprattutto in un settore come il nostro, nel quale l'argomento è sempre di attualità. Diciamolo però: tutti noi sappiamo che vorremmo vivere in un mondo senza violenza, ma tutti noi sappiamo anche che questo per ora è un traguardo irraggiungibile. Destiny in fondo realizza il nostro irrefrenabile desiderio di potere, di avere in mano una decisione che può cambiare il futuro nostro e degli altri. Ma lo fa inserendosi in un contesto moderno, in cui socializzare è diventato quasi necessario seppur in maniera completamente diversa dal passato. Ecco: trasformare questo istinto primordiale in un divertimento facendolo diventare pure la missione di un'intera comunità, può insegnare qualcosa alle nuove generazioni. Seppur, mi rendo conto, attraverso uno strumento quasi irreale».

Un'opportunità insomma, condividere il bene comune per difenderlo, in attesa degli sviluppi di un futuro che Destiny sta creando giorno dopo giorno, schema e dopo schema, senza che si veda il reale traguardo. Ma non è in fondo la vita questa? Ryan, che oggi ha 43 anni e un figlio di 15 che comincia a scoprire i nuovi universi del gaming, si rende conto di essere in fondo anche lui un po' Guardiano delle nuove generazioni, in quella sua stessa azienda dove cominciò come game tester e nella quale ha appena assunto un ragazzo di 18 anni, un futuro Harold: «Se ogni tanto comincio a sentirmi vecchio? Beh, in effetti se vedo quel ragazzo, e tutti quelli come lui, che lavorano adesso in Bungie, il sospetto mi viene. Considerato che in America la maggiore età è a 21 anni e ci sono sere in cui dobbiamo fare eventi in cui serviamo solo analcolici... Però in fondo anch'io sono ancora giovane e mi sono spesso chiesto che consiglio potrei dare ai giovani che voglio entrare nel business del videogame: devono sapere che non è solo questione di saper usare un computer, ma che per sceneggiare un gioco di successo bisogna studiare materie come storia, architettura, letteratura. E studiare duro. A me stesso invece chiedo sempre se sia il caso di andare avanti a fare un lavoro del genere alla mia età. Però poi ho capito che in realtà il mondo alla fine gira su una cosa sola: è tutto, appunto, questione di passione».

Probabilmente è destino.

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