Cultura e Spettacoli

Quelli del Gran Khan erano titoli sicuri

«Bizantino» è sinonimo di artificioso, sofistico, manierato. «Bizantinismi» sono gli arzigogoli in cui s'incaglia l'astruso gergo della nostra burocrazia. È lo stile dei mosaici d'epoca, con le sagome piatte e ieratiche degli Augusti di Costantinopoli che si stagliano sullo sfavillio dell'oro, astratto e senza tempo. In un campo, però, quei governanti che ressero un impero oltre dieci secoli sono in controtendenza rispetto alla fama di formalisti e maniaci dell'etichetta fine a se stessa: i metodi di gestione del debito statale.
Semplificazione e accorpamento erano le loro parole d'ordine, a partire da Eraclio (575-641), un padre fondatore. Tenne a bada i rulli compressori alle sue frontiere, Arabi, Persiani, Àvari, investendo in esercito e marina, tra i più efficienti al mondo. Le spese erano immense, ma il geniale contabile riuscì ad abbatterle di due terzi. Come? Inventando il thema. In greco, la parola significa «ciò che è posto», una circoscrizione amministrativa fissa. Oggi la chiameremmo «provincia». La differenza con le nostre entità territoriali è che quelle di Eraclio, invece di proliferare all'impazzata e di costare un occhio, alla faccia della spending review, si riducevano a 31 (su un dominio che andava dall'Italia all'Anatolia, con il baricentro nel Mediterraneo), e in più rendevano. A capo del thema c'era lo stratego: in guerra comandava, in pace amministrava. Guadagnava in proporzione al peso politico e militare del suo thema: si andava dalle 40 libbre d'oro annuali dell'Anatolicon, l'avamposto strategico sui pericolosi confini est, al costo zero del Cherson, la Crimea, interna e pacifica. Qui il reggente non succhiava allo Stato, tratteneva una prebenda sui redditi dei soldati. I quali, in tempo di tregua, si trasformavano in possidenti contadini. Invece di svuotare le casse pagando la truppa, Eraclio la remunerava in terra da coltivare. Con effetti virtuosi. L'agricoltore produttivo versa le tasse regolarmente. Inoltre, quando scatta l'allarme getta la vanga e imbraccia lo scudo senza gravare sull'erario.
A oriente, l'imperatore cinese, il Gran Khan, manteneva lo sfarzo di una corte da favola senza andare in rosso. I sudditi pagavano un tributo. Se però dilagava una carestia, il sovrano sospendeva l'esazione e sopperiva alla calamità inviando il suo grano. Interventi dispendiosi e contrastati perfino ai tempi nostri, con fisco e burocrazia che faticano a mollare la presa sulle zone terremotate. Il governo di Cambaluc (l'odierna Pechino) faceva fronte ai debiti grazie al commercio fiorente. I porti meridionali (il più trafficato era Zartom) erano crocevia di articoli costosi. Dall'India i cargo scaricavano perle, ripartendo zeppi di seta. Alessandria mandava flotte a imbarcare le spezie per tutta l'Europa. La dogana statale incamerava il 10 per cento come dazio. I moli e gli arsenali si pagavano: dal 30 al 60 per cento del sandalo, dell'aloe, del pepe. Una parte dei proventi rifluiva nelle casse pubbliche, in forma di imposta. Il cespite più importante del Gran Khan era la sua «tavola». Qui avvenivano transazioni da far invidia alle nostre borse. Per ordine imperiale, a date stabilite, gli uomini d'affari e i magnati vi accumulavano lingotti d'oro e d'argento, perle e gemme. In cambio, ricevevano dei biglietti ufficiali firmati dal capo. Erano ritagli ottenuti dalla scorza della piante del gelso, i primordi della cartamoneta. Questi documenti valevano «dieci bisanti», osserva compiaciuto Marco Polo (1254-124), «ma non ne pesavano neppure uno»: praticità di trasporto, sicurezza, valore legale, tutte le prerogative della nostra valuta cartacea racchiuse in questa innovazione del signore cinese.
Di debiti e finanze il Polo era intenditore. Il futuro viaggiatore aveva otto anni, quando sulla laguna fu istituito il primo Monte, in seguito denominato Monte Vecchio, allorché un paio di secoli dopo sorse un Monte Nuovo e, nel 1509, un Nuovissimo. Nelle città del medioevo e del rinascimento italiano i Monti erano la risposta operativa ai debiti pubblici. In questo settore fece scuola Firenze. In riva all'Arno prosperavano i commerci. Che farsene di tanti fiorini? I mercanti divennero banchieri: Peruzzi, Medici, Bardi. Prestavano liquidi alle teste coronate di tutta Europa. I peggiori pagatori del mondo. Nel 1343, Edoardo III d'Inghilterra dichiarò il fallimento, trascinando nella voragine i Peruzzi. I dissesti di altri regnanti misero in ginocchio i banchi. Capitali e politica s'intrecciavano nella repubblica del giglio: i «grandi» (i ricchi) ne erano gonfalonieri e magistrati, le loro dimore monumentali e le torri private rendevano forte e splendida la città. I loro crolli facevano traballare lo Stato.
Per le spese correnti, Firenze non poteva contare su introiti fiscali. Negozianti e artigiani erano refrattari a ogni tipo di tassa: solo i servi e i vinti in guerra potevano essere spremuti. Si ricorse a una forma di prelievo alternativo: il prestito, volontario o coatto, che lo Stato s'impegnava a rimborsare nel tempo. Nel 1347 i debiti furono ammassati in un enorme Monte Comune. Pagava ai creditori un interesse del 5 per cento, rilasciando ricevute che circolavano sul mercato come moneta sonante. Sono le antenate dei nostri assegni bancari. I guai cominciavano con l'impennarsi delle spese, soprattutto di guerra. Anche Genova lottava con il debito pubblico, aggravato braccio di ferro sul mare con Venezia. Creò il sistema delle «compere», associazioni di famiglie doviziose, creditrici dello Stato, a cui avevano prestato fondi di sopravvivenza. Nel 1407 un sodalizio di grandi mercanti fondò il Banco di San Giorgio: capitali per salvare Genova dal collasso. In cambio, lo Stato dava in appalto la riscossione dei tributi. Era la prima banca centrale, un miscuglio di società per azioni (garantiva il 7 per cento a chi depositava), di agenzia per le riscossioni fiscali, di zecca autorizzata a battere moneta in proprio. Un rischioso intreccio tra politica pubblica e finanza privata che avrebbe ispirato la nascita, nel 1694, della Banca d'Inghilterra, un cartello di finanziatori pronti a versare oltre un milione di sterline per la riscossa della corona, stremata dalla contesa imperialistica con la Francia. La formula non solo salvò Genova dai debiti, ma innalzò il suoi affaristi (nel corso del 1600, il «secolo dei Genovesi») al rango di banchieri d'Europa, specialmente di una Spagna sul lastrico, nonostante il fiume d'oro in arrivo dalle conquiste americane.
L'oro non medica i debiti pubblici. Favorisce il parassitismo. Per i nobili spagnoli era un disonore sporcarsi le mani con attività produttive: meglio investire in latifondi sterili e in juros, titoli di Stato, carta straccia che il trono non poteva onorare, se non indebitandosi con i prestatori genovesi. Un circolo vizioso destinato a sfociare nella decadenza. Anche la Francia era alle prese con giganteschi debiti. Avrebbero spalancato le porte a una rivoluzione.


(2. Continua)

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