Cultura e Spettacoli

Alla ricerca dell'ultima frontiera tra i ghiacci della nostra anima

Lo scrittore olandese racconta una avventurosa spedizione verso il Polo Nord In mezzo alla Natura fantasmatica, la vera scoperta sarà... la natura umana

Alla ricerca dell'ultima frontiera tra i ghiacci della nostra anima

U no dei punti chiave di Alla fine del sonno di Willem Frederik Hermans (Adelphi, pagg. 310, euro 18) arriva a una settantina di pagine dall'inizio. Il giovane geologo Albert Isserdorf è partito per una spedizione che dovrebbe cambiare la sua vita: tra le foreste di montagna della Lapponia si aspetta di fare una scoperta che impressionerà almeno il mondo - e poi forse anche sua madre - e che gli permetterà di regolare i conti con suo padre, morto in un crepaccio desiderando per lui un futuro da geologo. I membri della spedizione sono quattro: due sono escursionisti provetti, con un'attrezzatura al top. Ma Albert divide la tenda con Arne, una specie di asceta sui generis, imballato in abiti consunti e rifornito di oggetti logori, assolutamente inadatti ad affrontare burrasche, tempeste di vento, implacabili acquazzoni e una quantità inimmaginabile di zanzare e mosche capaci di trapanare anche il sistema nervoso. Non bastasse, Arne russa. Ne consegue che invece di trovare il cratere meteoritico di cui è alla ricerca, magari strapieno di «Issendorfite» extraterrestre, Albert sembri predestinato a soccombere ai parassiti o ad annegare alla base di un fiordo.

Verso pagina settanta si procede sempre più a nord della Norvegia. Siamo a Tromso, nell'impero dove non tramonta mai il sole («Un momento! Questa frase mi servirà quando scriverò una cartolina a mia madre»). È sera, la gente è a spasso, ci sono pochissime macchine, chi passa davanti al negozio di souvenir che vende pelli di renna carezza l'orso polare impagliato. Al centro di una piazza che degrada verso l'acqua c'è una statua in bronzo blu. Un'apparizione. Chi è? Il nome sul piedistallo dice «Roald Amundsen». E da qui cominciamo a capire che il viaggio di Albert è più di una spedizione: è lo svolgimento di un flusso di coscienza che ingaggia ogni lettore, oltre ogni meta polare.

Sotto la penna di Hermans, il conquistatore del Polo Sud riprende vita: scruta le cime striate di neve bianca, si puntella contro la bufera con le gambe ben piantate, il capo scoperto lascia vedere i capelli corti sul cranio spigoloso e i baffi folti e signorili e già vorremmo rimboccarglielo, il cappuccio del parka, che scende come una camicia da notte fino al rincalzo dei tubolari negli stivali. Ad Albert, e a tutti noi, tornano alla mente all'istante tutte le storie di esploratori lette da ragazzi. Amundsen che mangia i suoi cani, poi i cani che si mangiano tra loro. Shackleton che si cibava dei pony che usava al posto dei cani. Storie di sopravvivenza estrema e senza leggi. E poi Scott, «Che lottò per raggiungere il Polo Sud con la biancheria termica ghiacciata, le dita dei piedi ibernate, ma con il cuore che gli batteva in gola all'idea di calpestare una terra su cui nessun uomo aveva ancora messo piede...». Sembra una narrazione tradizionale, cronaca dei fatti, scoperta, in fondo rassicurante, che in ogni uomo cova lo spirito dell'impresa ma che solo negli eroi lo spirito parte alla conquista dell'immortalità.

Se Hermans è considerato uno dei più grandi scrittori olandesi del Novecento, tuttavia, è proprio perché, in questo primo punto chiave del suo romanzo più famoso - pubblicato nel 1966 - va oltre gloria e memoria. L'occhio del suo protagonista Albert Issendorf non è solo critico, è avido di lucidità e dissacrazione, gelido più di ogni artico. Scott in fondo non calpestò una terra nuova, ma solo neve: «E calpestare neve su cui nessuno ha ancora messo piede è cosa che d'inverno può fare chiunque abbia un giardinetto dietro casa. Dov'era la novità?». Riapriamo gli occhi, ci accorgiamo che non ci siamo mai spostati dai nostri divani ed Hermans entra in una dimensione allucinatoria: allucinazione leggera, perché alla lunga l'hanno vinta i paesaggi alla Shackleton e la natura è più forte persino della letteratura.

Ma allucinazione che ben si presta a condurci in un viaggio dal doppio binario, in cui mentre rammentiamo le eroiche parole dei diari di Scott, scritte nei pressi della lenta morte per assideramento in tenda, con la biancheria di lana che non si asciugava da mesi, squarciamo insieme ad Albert il velo dell'incubo, così poco eroico, per nulla poetico, genialmente contemporaneo: «Tanta gente non scrive mai esattamente quello che pensa. Non scrive: la mia calzamaglia mezzo congelata puzza come una carogna. E neanche: a cinquanta gradi sotto zero la nostra urina si congela e rimane dritta come una canna di vetro giallo. Loro non scrivono così.

Tengono continuamente in alto la bandiera, pure se non sono stati i primi a piantarla al Polo Sud».

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