Cultura e Spettacoli

Saunders, l'ingegnere che «smonta» la realtà e scala le classifiche

Meno male che ha studiato Ingegneria. Perché se la sua formazione fosse stata umanistica, sarebbe soltanto un buon osservatore e forse un buon commentatore, però gli mancherebbe la visione costruttiva e decostruttiva sul mondo. Gli mancherebbe la pars costruens e (soprattutto) quella destruens del discorso, la manipolazione della realtà e la capacità di proiettarla in un futuro talmente plausibile da sembrare già passato. L'amore per l'umanità che ogni buon umanista possiede gli impedirebbe di compiere su di essa l'operazione che invece compie in ogni suo racconto. E che consiste nel ridurla ai minimi termini, spogliandola dei suoi costumi di scena, cacciandola dal palcoscenico su cui gigioneggia e gettandola in mezzo alla strada.
Meno male che George Saunders s'intende più di geofisica che di sentimenti, che non ha punti di riferimento letterari, che non ha clienti ai quali recapitare messaggi, che non ha, tutto sommato, neppure un pubblico d'elezione. È come un bimbo che gioca al Meccano: sembra isolarsi da tutto ciò che gli si muove intorno, armeggia, apparentemente senza criterio, con barrette metalliche, viti, bulloni. Bofonchia, parla da solo. Ma alla fine, dopo qualche pagina, mamma e papà potrebbero carezzargli la testolina rossiccia e dirgli: «Ma che bravo, Giorgino, che cos'è?». E lui potrebbe rispondere: «Non so, ma funziona».
Infatti funzionano, i racconti di George Saunders, nato ad Amarillo (Texas) nel '58, e il piacere di leggerli non consiste propriamente nel leggerli, bensì nel terminare di leggerli. Quando li si finisce, si prova un senso di liberazione, come quando la mattina ti svegli sapendo d'aver fatto un brutto sogno ma senza ricordare nulla del contenuto del sogno, e allora dici: «Meno male che sono ancora qui, meno male che mi tocca alzarmi e che quello di prima era soltanto un brutto sogno...». Ovviamente sorvolando sul fatto che quel «prima» continua a stare lì con te, come con il Don Eber di Dieci dicembre continuano a stare i pensieri cattivi fatti in prossimità di un laghetto ghiacciato...
Una volta gli hanno chiesto che cos'è la felicità, e Saunders ha risposto che la felicità «non vuol dire eliminare tutte le cose negative, ma trovare un compromesso, riconoscere che a volte sono un necessario effetto collaterale, un sottoprodotto di cose positive». Beh, c'è da dire che lui gli effetti collaterali e i sottoprodotti delle cose positive li maneggia alla grande. Sono gli elementi del suo Meccano. Per esempio c'è un uomo che scende da un furgoncino e si capisce subito che sta per insidiare dei bambini, ma poi, con un geode finito nei paraggi chissà in che modo... (Giro d'onore). Oppure c'è un bambino diciamo così molto problematico che la sua mamma, per proteggerlo certo, ci mancherebbe, tiene alla catena... (Il cagnolino). O ancora c'è un direttore di divisione oltremodo schizzato che non sa bene se dare una lavata di testa ai membri del suo staff o rassicurarli... (Esortazione). E c'è quel ciccione mammone e tendenzialmente checca che partecipa a un imperdibile appuntamento: «Era un pranzo di beneficenza con l'asta dei Vip Locali, dove per Vip Locale si intendeva lo sfigato abbastanza fesso da rispondere sì quando la camera di Commercio gli chiedeva di partecipare». Così il ciccione si prende una piccola vendetta... (Al Roosten).
Dopo Nel paese della persuasione, Pastoralia e Il declino delle guerre civili americane, l'ingegner Saunders continua a montare e smontare persone e situazioni in Dieci dicembre (minimum fax, pagg. 222, euro 15, traduzione, come sempre, di Cristiana Mennella, la quale fra un secolo sarà ricordata, parlando di narrativa statunitense in Italia, come Adriana Motti in rapporto a J.D. Salinger, tale e tanto è il lavoro di analisi che compie su testi ardui, puntuti, resistenti a esser volti in altra lingua). Continua anche a vendere un botto di copie, come testimoniano le classifiche americane e non solo. Della sua prosa ha detto: «Io non so scrivere una frase completa. Non so descrivere la natura. Non me ne frega niente di che cosa pensano due seduti al tavolino di un caffè e in procinto di divorziare».
Ciò che gli frega è camminare sul filo teso fra il «qui e ora» e il «probabilmente domani». Come in Le ragazze Semplica, dove fanciulle-collaboratrici domestiche venute da Laos, Moldavia, Somalia e Filippine sono impiegate in qualità di festoni nei giardini delle case borghesi, figurette chagalliane flottanti nell'aria. O come in Fuga dall'aracnotesta, dove Jeff, impiegato con il ruolo di cavia in un laboratorio-bordello-falansterio-panopticon delle emozioni, s'accoppia a sfare e ingolla pillole della verità come fossero noccioline. Il Verbaluce è una pozione magica e, come i racconti di Saunders, strappa la foglia di fico alla realtà.

Lasciandola a vagare, nuda e raminga, per il mondo.

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