Cultura e Spettacoli

Scott Turow: Democrazia o guerra civile?

"Se le élite politiche e intellettuali chiudono gli occhi di fronte alla crisi della middle e working class sarà un tutti contro tutti". Scott Turow, il padre del legal thriller, racconta in anteprima al Festival delle Storie il suo ultimo romanzo: "La Testimonianza"

Scott Turow: Democrazia o guerra civile?

Non è certo la prima volta che arriva in Italia. Ci viene spesso, la prima quasi cinquant’anni fa, quando era poco più di un ragazzo. Adesso però è diverso. Non la metropoli, non le città d’arte, ma un posto sbiadito sulle mappe dei viaggiatori americani, l’Italia più profonda, quella che sa di strapaese, in una delle valli dell’Appennino, a metà strada tra Roma e Napoli, una sorta di terra di mezzo, sotto Montecassino. Lì dove ci sono le radici del monachesimo benedettino e secoli e secoli dopo gli angloamericani hanno raso al suolo l’abbazia.

Sono le cinque di sera e Scott Turow sta passeggiando per Alvito, provincia di Frosinone, qui dove il Lazio sfiora e incrocia Campania, Abruzzo e Molise e si respira aria di parco nazionale, con gli ululati dei lupi d’inverno e le orme degli orsi d’estate. Turow, il padre del giallo giudiziario, ha scelto di raccontare in anteprima il suo ultimo romanzo proprio qui, ospite del Festival delle Storie. “Perché qui? Perché è l’Italia che non conosco, perché sa di vero, perché il mio istinto spesso ha ragione e mi sto godendo questo incanto”. “La Testimonianza” è stato appena pubblicato da Mondadori. Non preoccupatevi, anche questa volta c’è un tribunale dove le storie si intrecciano e si snodano, ma è quello dei diritti dell’uomo dell’Aja, quel pezzo di Olanda dove si coltivano utopie e illusioni, quasi a fare da controcanto al suono mercantile di Amsterdam.

E anche questa volta la sfida è segnare il confine tra il vero, il verosimile e il falso. Bisogna ripartire dagli anni Novanta del vecchio secolo, in quella mattanza che fu la guerra civile nella ex Jugoslavia. Il caso è il genocidio di 400 Rom seppelliti sotto una miniera in Bosnia. Non si sa chi sia stato, forse i serbi, forse gli americani, forse i jihdaisti. Ma il vero tema è fare i conti con se stessi, con gli stessi errori di sempre, con l’incapacità di non vedere che gli orrori del passato tornano con forme e colori diversi, sempre nella stessa testarda Europa.

Così ci si ritrova in un’osteria di paese a parlare della natura umana, di un’impero americano riluttante e miope, di come la legge e il diritto si illudano soltanto di ingabbiare la verità in una partita a scacchi tra accusa e difesa. Si mangia “paneammollo”, una sorta di ribollita, e si beve vino, parlando dei paradossi della democrazia. L’America ha ricordato ai democratici dal sangue blu che i voti si contano e non si pesano, anche quelli di Trump e dire che sono voti stupidi, volgari e sporchi significa ripudiare il senso della democrazia. “Questo frantuma le certezze di quelli come me, che certo non votano Trump, ma che hanno chiuso gli occhi davanti alla rabbia e alle difficoltà di ex borghesi, operai e salariati. Non abbiamo capito quanto fosse profondo il malessere dell’America che non appare mai in copertina. Se le élite politiche e intellettuali chiudono gli occhi di fronte alla crisi della middle e working class si rischia la guerra civile di tutti contro tutti”.

Poi dall’osteria si va in teatro, un piccolo teatro settecentesco, un teatro di corte di un duca venuto da lontano. Qui Turow, con Edoardo Inglese, Paolo Noseda e Vittorio Macioce, svela l’arte dell’intreccio e del romanzo, si commuove quando parla di suo padre, compagno di liceo di Saul Bellow e quanto tempo ci abbia messo a capire le ragioni del mondo degli ebrei di Chicago, racconta che all’inizio ha scelto di fare l’avvocato perché non riusciva a fare lo scrittore, poi quando è finito sulla copertina di Times Magazine dopo il successo di “Presunto innocente” ha capito che non voleva essere solo uno scrittore e ha continuato a combattere da avvocato contro la pena di morte. È tornato bambino davanti alle immagini dei “Chicago Cubs”, gli adorabili perdenti del baseball, che dopo una maledizione durata più di un secolo sono riusciti a vincere finalmente le “World Series” due anni fa. “Quel giorno il cimitero della mia città era colmo di vecchi ragazzi che portavano fiori sulla tomba dei padri, quei padri che non hanno mai visto la loro squadra vincere”. Come accadde a Napoli ai tempi del primo scudetto maradoniano, quando davanti alle tombe di Poggioreale apparve una scritta che narrava tutto: “Che vi siete persi!”.

Si finisce quasi a mezzanotte, quando il vento si alza e spazza le strade, come un incantesimo, un omaggio della piccola e remota Alvito all’ospite arrivato da Chicago, la città delle macchine, il cuore del Mid West, la città di Al Capone, ma soprattutto la città del vento.

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