Controcultura

La scrittura è femmina

Ci sono autrici più maschie dei maschi, altre che "parlano" alle donne. Ma lo stile è legato al sesso?

La scrittura è femmina

Cliché della letteratura: se una donna si impegna su temi «maschili», questo comunque non la salverà dall'essere banalizzata; se un uomo si «abbassa» a raccontare il privato, scrive di amore, matrimonio e bambini, allora è empatico e coraggioso. Questa, secondo Hilary Mantel, la regina delle scrittrici inglesi e del romanzo storico, due volte vincitrice del Booker Prize (unica donna) nel 2009 e nel 2012, è la differenza fra scrittori e scrittrici. Il pregiudizio, che ha portato una come Elizabeth Jane Howard, bellissima e tormentata matrigna di Martin Amis, autrice di una saga bestseller (I Cazalet) e del libro-culto Il lungo sguardo, a essere «sottostimata»: perché i suoi romanzi erano finiti nella categoria «scritti da donne, per donne». Categoria la cui esistenza, per Hilary Mantel, è «indifendibile». Stesso motivo per cui la sua connazionale Antonia Byatt considera «sessista» l'Orange Prize, dedicato solo alle donne: «Non esiste qualcosa come un tema "femminile", in letteratura».

Eppure... La questione «scrittrici» esiste, così come esiste la questione della scrittura «al femminile». Margaret Atwood, da anni in lizza per il Nobel e impegnata in battaglie femministe (a modo suo), alla domanda: «Sa riconoscere il sesso di uno scrittore solo leggendo il testo?» ha risposto: «Qualche volta, sicuramente. Ma non sempre». Come dire: ci sono degli argomenti e uno stile tipicamente femminili (l`attenzione alle persone, alle relazioni, al piccolo mondo domestico), ma non vale per tutte. Come dimostra il volume, da poco pubblicato dalla Paris Review, dal titolo-manifesto Women at Work, «Donne al lavoro»: raccolta (pagg. 392, dollari 20) di dodici delle leggendarie interviste della rivista ad altrettante scrittrici, da Dorothy Parker a Marguerite Yourcenar, da Toni Morrison a Joan Didion, passando per Karen Blixen, Elizabeth Bishop, Hilary Mantel... E la Atwood, che appunto alla Paris Review ha spiegato la sua posizione di (presunta) femminista: «Non credo nel "punto di vista maschile" più di quanto creda nel "punto di vista femminile"... Diciamo che la buona scrittura, di qualunque genere, è sorprendente, intricata, dura, sinuosa». Detto da una che pensava di dover vivere come Virginia Woolf, Emily Dickinson o Jane Austen: tutte senza figli. E invece ha scoperto che si possono avere figli, e si possono anche scrivere (grandi) libri. Può essere faticoso: Toni Morrison si alzava all`alba, perché quando ha iniziato i figli erano piccoli, e alle cinque erano già svegli: «Mammaaaa». Però perfino lei, che oggi si definisce una «scrittrice nera» (e ha vinto il Nobel nel 1993), agli esordi, quando lavorava da editor in Random House faceva fatica a dire di essere «una scrittrice». Non perché sia una creaturina debole. Una che a 17 anni ha letto Finnegan's Wake di Joyce e l'ha trovato «spassoso» non può essere presa per sentimentale, e spiega: «Non mi piacciono quelle piccole emozioni veloci, come "Sono sola, ooh, Dio"»; per scrivere romanzi ci vuole altro: «Un pensiero freddo, freddissimo. Un cervello che pensi a freddo». Se questa è letteratura femminile...

Ci sono poi scrittrici che hanno scelto di parlare alle donne e delle donne, come Simone de Beauvoir (1908-86): «Nei miei romanzi ho mostrato le donne per ciò che sono - esseri umani divisi - e non per ciò che dovrebbero essere... Ho contribuito in qualche modo alla discussione sui problemi delle donne». O che si sono nascoste dietro un nome da uomo, come la baronessa Karen Blixen (1885-1962), anche nota come Isak Dinesen e Isak - spiegava lei - significa «risata», perché tra i suoi autori di riferimento c'era Mark Twain.

Elizabeth Bishop (1911-79) temeva di essere considerata «frivola»: al college si arrampicava sugli alberi, esordì alla Vassar e durante la Grande depressione non si perse d'animo («Tutti erano comunisti tranne me, io sono sempre stata così perversa da appassionarmi a T.S. Eliot e all`anglocattolicesimo»). Sognava di essere una compositrice o una pittrice (idem la Atwood, che vorrebbe imitare Churchill), si è sempre considerata «una femminista dura», però ha rifiutato di comparire in un'antologia di sole poetesse: «Non credo nella propaganda in poesia. Raramente ha funzionato». Non credeva neanche nelle letture di poesia in pubblico, e ancora meno nei corsi di scrittura: «La parola creativo mi fa impazzire. Non mi piace sia considerata una terapia».

Marguerite Yourcenar (1903-87), prima donna ammessa all`Académie Francaise, che «prima dei vent'anni» aveva già concepito tutti i suoi libri, per le colleghe Colette e Gertrude Stein non spende parole gentili («Non mi piacciono»). E a proposito di femminismo: «Non mi interessa. Ho orrore di questi movimenti. Credo che una donna intelligente valga quanto un uomo intelligente - sempre che se ne trovi uno - e che una donna stupida sia noiosa quanto un uomo». Si capisce che in Gran Bretagna abbia chiuso la porta alla Virago Press: «Non voglio essere pubblicata da loro - che nome! - perché pubblicano solo donne. Mi ricorda gli scompartimenti per sole donne sui treni dell'Ottocento, o un ghetto». I suoi riferimenti? Baudelaire, Hugo, Rilke... Per Joan Didion, una delle signore della letteratura contemporanea, il modello invece è il Conrad di Vittoria: «Non ho mai iniziato un romanzo senza rileggerlo». Racconta di ribattere ogni volta tutte le frasi dall'inizio per «prendere il ritmo» (anche superata pagina cento...) e che, dopo avere cominciato a Vogue, non voleva «diventare Miss Cuori solitari»: così, «annoiata», ha iniziato a occuparsi di politica. Per esercitarsi, copiava frasi di Hemingway.

Hilary Mantel sostiene le scrittrici, ma solo quelle che ammira: di recente ha detto che certe colleghe «vogliono scrivere delle donne nel passato, ma non resistono ad attribuire loro del potere che non avevano». Dovrebbero, secondo lei, «occuparsi di altro». Lei per esempio, anni dopo avere scritto la sua trilogia sulla Rivoluzione francese si è accorta che nel romanzo le donne erano «tappezzeria»: «Allora non mi sembravano interessanti: vivevo più come un uomo del Settecento che come una donna del Settecento». Da piccola si identificava in Jane Eyre, ma «non per la storia d'amore», bensì perché «non era innocente». Il suo libro preferito è Il ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson, che definisce «perfetto»: «Forse perché parla di un ragazzo, dell'amicizia maschile, della costruzione della mascolinità, e quel ragazzo lascia casa sua e non può tornare, perché non c'è nulla a cui tornare.

Una storia che ho raccontato per tutta la mia vita».

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