Controcultura

Steve Bannon, il populismo onesto

Ma davvero l’ex stratega di Trump è il diavolo? Una nuova biografia, pur critica, sembra dire di no

Steve Bannon, il populismo onesto

S teve Bannon, lo «sciattone» della politica Usa, osserva con attenzione l’Italia, dopo aver portato Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. L’attuale governo, sulla carta, realizza il suo ideale: l’unione delle forze anti-establishment (il Movimento 5 stelle) e nazionaliste (la Lega). Dice lo «sciattone»: «Hanno messo da parte la politica di sinistra e di destra in modo che un movimento puramente populista e un movimento nazionalista possano unirsi. Ora vedremo se possono essere buoni alleati». Il nostro Paese quindi è un banco di prova per l’intero continente dove montano la protesta e la volontà di riappropriarsi della sovranità ceduta all’Unione europea. Bannon è sempre stato rappresentato dai media italiani come una sorta di fenomeno da baraccone. Capelli lunghi, barba sfatta, t-shirt, giaccone militare, ciabatte infradito. Una passione smodata per le bufale diffuse ad arte per calunniare i nemici e per le notizie dallo sfondo razzista. Non va meglio al suo strumento, il sito Breitbart News, accusato di rivolgersi a tutte le frange della destra «alternativa» al Partito repubblicano: nazisti dell’Illinois, suprematisti bianchi, razzisti assortiti e vari, fascistoidi, islamofobi, xenofobi. Il diavolo. Steve Bannon e la conquista del potere (Luiss, pagg. 246, euro 23) di Joshua Green offre un ritratto totalmente diverso. L’autore segue in parallelo l’ascesa di Donald Trump e di Steve Bannon, due outsider nel mondo della politica, capaci di battere la vecchia volpe Hillary Clinton, moglie del presidente Bill Clinton e segretario di Stato con Obama. Insomma, un concentrato di potere e un simbolo del Partito democratico. Senza lesinare critiche, Joshua Green, corrispondente di Bloomberg e commentatore di Cnn, descrive un altro Bannon rispetto a quello raccontato dai giornali di casa nostra. Steve oggi calza le infradito ma non è lontano il tempo in cui indossava cravatta e abito blu. Bannon è nato nel 1953 in una famiglia operaia e cattolica a Norfolk, Virginia. Studi alla accademia militare cattolica Benedectine. Laurea alla Virginia Tech in pianificazione urbanistica nel 1976. Ingresso nella Marina degli Stati Uniti: ne apprezza soprattutto il cameratismo e lo spirito di gruppo. Vive in prima linea la crisi con l’Iran del 1980. Si convince che l’islam sarà il prossimo nemico dell’Occidente, impressione confermata, molti anni dopo, dall’attacco alle Twin Towers. Nello stesso periodo rimane folgorato da un politico emergente, Ronald Reagan. Dopo otto anni, lascia l’esercito. Vuole trasferirsi a Wall Street. Nonostante l’età, nel 1983 viene ammesso alla Harvard Business School. Ne esce come il migliore del suo corso e viene assunto dalla banca d’affari Goldman Sachs. Inventa un sistema per trarre grandi guadagni dalle acquisizioni ostili, un campo che non sembrava offrire molto. Crede nelle banche come strumento per aiutare la ristrutturazione economica di un Paese che entra nel periodo post-industriale. Non apprezza che le banche d’affari si facciano quotare in Borsa, diventando aziende che giocano d’azzardo con i soldi degli azionisti. Goldman Sachs lo invia a Los Angeles per imparare a lavorare nel settore dell’intrattenimento. Bannon incassa un nuovo successo fondato sulla capacità di assegnare un prezzo ai film di catalogo. In questo periodo lavora anche con le aziende televisive di Silvio Berlusconi. Ormai è così ricco da permettersi di fondare una casa di produzione cinematografica che dovrebbe realizzare, oltre a qualche blockbuster, documentari cattolici e conservatori. Già che c’è, impara il mestiere di regista. L’affarone però lo fa con una serie tv bisognosa di rilancio: Seinfeld. Diventerà un successo mondiale. Un ramo del suo piccolo impero rappresenta star come Leonardo DiCaprio, Cameron Diaz, Ice Cube. A questo punto, Bannon non avrebbe più bisogno di lavorare. C’è tempo per un’ultima, strana ma decisiva esperienza. Nel 2005 si trasferisce a Hong Kong per studiare i modelli di guadagno dei giochi su internet come World of Warcraft. Rimane sedotto dalle comunità on line, dalla loro coesione e capacità di far circolare informazioni. Ci fermiamo qui, alla soglia dell’evento che trasforma Bannon in un attivista politico: dopo aver conosciuto nel 2004 un brillante giornalista, Andrew Breitbart, lo «sciattone» si lascia coinvolgere dalla politica attiva. Nel 2008 ripone le sue speranze in Sarah Palin e nel movimento noto come Tea Party. Nel 2012 il sito d’informazione Breitbart News è pronto al lancio. Il primo marzo, a quattro giorni dall’evento, muore Andrew Breitbart a 43 anni. Bannon prosegue da solo.

Il resto è storia. Breitbart News diventa sempre più influente rivolgendosi ai cittadini delusi dal Partito repubblicano, che non riescono a distinguere da quello Democratico. Tra i fedelissimi di Breitbart News non ci sono i nazisti dell’Illinois ma la base del partito conservatore. Bannon si espande e prende il controllo del Gai, un centro di ricerca che prepara indagini scottanti di argomento politico. Sarà il cuore della battaglia contro Hillary Clinton. Se Breitbart News sconfina spesso nella satira e nell’estremismo, Bannon per il Gai ha una sola raccomandazione: le notizie devono essere inattaccabili. Molti giornalisti distruggeranno la reputazione dei Clinton a partire dal materiale raccolto dal Gai. Breitbart News è stato accusato di diffondere bufale. Talvolta è vero ma ricordate il caso dei bambini messicani strappati ai genitori dalle guardie di confine statunitensi? Fu un immenso scandalo, che oscurò l’immagine di Trump.

Ma Breitbart News aveva documentato lo stesso fenomeno quando il presidente era Obama. Non solo non si potevano addossare tutte le colpe a Trump ma addirittura le immagini usate contro Trump erano state girate (in parte) all’epoca di Obama. Chi è il bufalaro? Bannon, come tutti sanno, divenne l’ultimo e decisivo stratega della vittoriosa campagna presidenziale di Donald Trump. Steve non fece in tempo a entrare alla Casa Bianca che già era stato messo alla porta. L’odio per l’establishment di Bannon non era più appropriato per un presidente. Veniamo all’ultima accusa rivolta a Bannon: essere un pericolo per la democrazia, come dimostrerebbe la sua ammirazione per Julius Evola. Steve descrive così il suo programma: «Frontiere, valuta, identità nazionale e militare». Nel rapporto tra economia e Stato, centrale è il concetto di sussidiarietà e con questo Bannon torna al pensiero sociale cattolico preponderante nella sua educazione, conciliandolo con la visione tipicamente americana per cui lo Stato deve avere un ruolo limitato. Lo «sciattone» critica la globalizzazione per vari motivi: porta disoccupazione nei Paesi occidentali; scatena l’immigrazione clandestina; toglie sovranità e identità ai singoli Stati, cancellando la tradizione (nella definizione che ne diede René Guénon) a vantaggio della completa uniformità. In economia, Bannon ha ripetuto le critiche al sistema bancario che abbiamo già ricordato e vuole restaurare l’autentico capitalismo messo in crisi da un subdolo socialismo di Stato. Il pericolo maggiore, in politica estera, è il «fascismo islamico jihadista». Bannon non nasconde di stimare Vladimir Putin: la Russia è custode della tradizione. Il populismo di Bannon può essere definito come disprezzo per l’establishment dei partiti tradizionali, indistinguibili tra loro e autoreferenziali, completamente incapaci di vedere la realtà quotidiana dei cittadini. Lui invece lo definirebbe «populismo onesto», formula presa in prestito dal repubblicano Jeff Sessions, sostenitore di Trump. Il politologo Giovanni Orsina, nella postfazione al volume di Green, mette in luce un doppio pericolo: il populismo è opposizione ma una volta al governo non sa quali pesci pigliare; il populismo genera rancore: si rischia che la prima ondata populista sia sostituita da una seconda e peggiore ondata populista.

In ogni caso, la notizia che Steve Bannon sia il diavolo è fortemente esagerata.

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