Cultura e Spettacoli

Fra talento e anarchia, l'arte è guerriglia urbana

Il grande scrittore spagnolo abbandona cappa e spada per raccontare lo spietato ambiente dei graffitari. Dove mercato e critici spadroneggiano

Fra talento e anarchia, l'arte è guerriglia urbana

Nel graffito urbano c'è spazio per qualsiasi cosa, talento e analfabetismo artistico, protesta anarchica e vandalismo individuale, rifiuto delle regole del mercato e desiderio di farne parte fingendo di disprezzarle... Mai come da quando tutto è arte, l'arte ha smesso di essere qualcosa e il suo posto è stato preso dal business: «Oggetti senza valore sopravvalutati da idioti o da negozianti che si chiamano galleristi, con i loro complici al soldo, che sono i mezzi di comunicazione e i critici influenti che possono far arrivare in alto chiunque, o distruggerlo. Prima erano i committenti a determinare la faccenda, e adesso sono i compratori a determinare i prezzi delle aste. Alla fine tutto si riduce a mettere insieme una certa quantità di euro. Come in tutto il resto. L'arte attuale è una frode gigantesca», e sono «i corvi del mercato» i veri padroni.

Sniper sembra essere qualcosa di diverso. È un writer senza volto che ha scelto per sé il nome e il modus operandi del cecchino: opera nel buio, non «spara» a caso, seleziona le sue vittime, ovvero i suoi obiettivi. Il suo graffitismo non rientra nei canoni, talmente ampi ormai da essersi svuotati di senso, della cosiddetta «rappresentazione artistica», ma in quelli, come egli stesso sostiene, della «guerriglia urbana». Illegale è la sua parola preferita, «lanciare sulla città dubbi come se fossero bombe. I graffiti hanno bisogno di un campo di battaglia. L'arte è una cosa morta, mentre un graffitaro è vivo».

Volendo, in una società che tutto addomestica, compra e fa proprio, l'unica arte attuale possibile diventa quella libera e l'unica arte libera possibile diventa quella di strada, di per sé illegale in quanto estranea ai valori imposti dalla società contemporanea. Ne deriva, come corollario, che «mai come adesso è stata vera la vecchia affermazione secondo cui l'autentica opera d'arte è al di sopra delle leggi sociali e morali del suo tempo», o almeno così teorizzano quei critici che vorrebbero fare di Sniper l'alfiere dell'arte anti-sistema, celebrarlo in quanto distruttore di ciò che loro stessi hanno costruito, portare insomma la rivoluzione nel salotto buono della conservazione... Il sottofondo di questo ragionamento è che in fondo anche Sniper è uno di loro, un cecchino che si è pazientemente nascosto per far salire le proprie quotazioni, un teorico non tanto della «guerriglia urbana» quanto del proprio status di guerriero. Più tarda a venire alla luce, più la sua statura di irriducibile sale, più redditizia sarà la sua resa, ovvero la sua fama.

È in quest'ottica che Alejandra Varela, specialista in arte urbana, viene sguinzagliata sulle sue tracce. C'è un progetto editoriale gigantesco, fatto di sponsor pubblici e privati, di gallerie e di musei: basta che lui accetti e il circo Barnum dell'arte contemporanea si metterà in moto: cataloghi, mostre a tema, convegni, personali, retrospettive... Il problema è che di Sniper non si conosce la vera identità, non si sa né dove viva né come, è un nome senza un corpo. Trovarlo, insomma, è più un lavoro da detective che da operatori culturali. C'è poi un altro elemento che rende la ricerca ancora più complicata: le sue perfomances artistico-belliche, i suoi «interventi» sul paesaggio urbano comportano un elemento di rischio che può rivelarsi fatale per i «colleghi» che egli chiama a raccolta, spinge all'emulazione. Sceglie obiettivi simbolici difficili da raggiungere e super controllati, non si accontenta di anonimi muri metropolitani. Così è successo che qualche giovane writer ci abbia lasciato la pelle e qualche genitore, qualche amico o amante del caduto sul campo della «guerriglia urbana» gliel'abbia giurata. A ricercarlo non è solo il piccolo-grande mondo dell'arte che vorrebbe pagarlo, ma anche il piccolo-grande mondo di chi vorrebbe fargliela pagare... Per i suoi componenti, Sniper non è un cecchino dell'arte, è un «cattivo maestro», un seminatore nichilista di morte. Lui lo sa e anche per questo si nasconde.

Il cecchino pazient e (Rizzoli, pagg. 254, euro 18; trad. Bruno Arpaia), il nuovo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, racconta questa caccia, astuzie e depistaggi, confronti e scontri, e questo universo: i codici e i valori che stanno dietro al graffitismo urbano, le velleità e gli equivoci che lo attraversano, il discrimine a volte sottile, altre incolmabile, fra sberleffo, rivolta, moda, vandalismo. Lo fa, lungo scenari metropolitani che da Madrid e Lisbona conducono a Verona e Napoli, con l'abituale maestria del suo autore, capace di costruire trame e intrighi come pochi e innervarli con un sottofondo etico mai banale. Gli “eroi” di Reverte sono sempre degli sconfitti della vita, «giovani solo alla vigilia della battaglia. Poi, vinci o perdi, sei invecchiato». E la vita, il senso autentico della realtà, è sempre e comunque una tragedia, così come è il Fato il cecchino più paziente.

E infallibile.

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