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Tutti i crimini di Stalin? Erano già previsti dalla dottrina di Lenin

L’utopica liberazione dal capitalismo nascose l’assoluto sacrificio al "verbo" della rivoluzione. Un equivoco lungo un secolo

Tutti i crimini di Stalin? Erano già previsti dalla dottrina di Lenin

C’è un capitolo del celebre studio di François Furet sulla storia dell’idea comunista nel XX secolo, Il passato di un’illusione, che si intitola «L’universale fascino dell’ottobre ». È un capitolo che cerca di analizzare le motivazioni della seduzione profonda esercitata dalla Rivoluzione russa del 1917: una seduzione che le avrebbe fatto travalicare i confini del territorio di origine, portandola a dilagare in tutto il mondo.

Secondo lo storico francese tale motivo andrebbe rintracciato nel fatto che, a livello di percezione collettiva, la Rivoluzione russa venne vista e sentita come una sorta di «prolungamento» di una fase della Rivoluzione francese, non quella «borghese» del 1789, ma quella «giacobina» della stagione del Terrore fra il 1793 e il 1794. Lenin, in altre parole, aveva recuperato l’eredità giacobina, l’aveva passata attraverso il filtro del populismo russo, vi aveva aggiunto le «certezze» del marxismo miscelate con pulsioni utopistiche e ne aveva fatto una «pozione » così forte che avrebbe inebriato generazioni di militanti. Da quel momento, infatti, dopo la caduta dello zarismo e la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia, l’idea di una società utopistica fondata sulla eguaglianza e sull’eliminazione di ogni disparità economica si sarebbe diffusa a macchia d’olio, pur se ben presto avrebbe dato origine non già al «paradiso in terra» ma all’incubo terrificante del totalitarismo e dell’arcipelago Gulag. E l’«universale fascino dell’ottobre» avrebbe continuato ad ammaliare milioni di uomini trasformandosi in maniera camaleontica fino agli avvenimenti culminati con la caduta del muro di Berlino e anche oltre gli stessi al di fuori del mondo occidentale.

La Rivoluzione russa del 1917, insomma, rappresentò una cesura epocale nella storia, indipendentemente dal fatto che essa potesse o no, in linea teorica, essere ricondotta nell’alveo della tradizione rivoluzionaria del giacobinismo francese della fine del XVIII secolo. Il marxismo-leninismo, cioè il marxismo nella versione di Lenin, è all’origine della Rivoluzione d’Ottobre e ha portato alla costruzione dello Stato comunista in Russia, e anche altrove, accreditando l’utopia salvifica della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento capitalistico e quella, altrettanto chimerica, della creazione di un «paradiso in terra» da costruirsi mettendo da parte le garanzie proprie dello Stato di diritto nel presupposto, come ha osservato ancora Furet in un altro suo bel libro, Le due rivoluzioni. Dalla Francia del 1789 alla Russia del 1917, che «l’emancipazione comporti di per se stessa l’esercizio finalmente sovrano dei diritti politici da parte dell’intermediario della dittatura del proletariato » secondo uno schema che riprendeva la tradizione politico-intellettuale del giacobinismo francese per la quale lo Stato rivoluzionario era «il garante dell’uguaglianza e dunque della libertà». Le vicende storiche del comunismo, quale è andato sviluppandosi a partire dalla realizzazione delle idee di Lenin e dalla presa di potere dei bolscevichi in Russia, si risolvono nella storia di una utopia salvifica ispirata dall’«universale fascino di Ottobre», lastricata da milioni di cadaveri, punteggiata dalla costruzione di «universi concentrazionari» e costellata, nel suo realizzarsi, da azioni criminali.

È una storia di illusioni e di sogni palingenetici infranti sull’altare di una impossibile discontinuità fra le posizioni teoriche e i comportamenti di Lenin, da una parte, e quelli dei suoi successori. In questa ottica, per esempio, appare evidente come i cosiddetti «crimini di Stalin» denunciati dal XX congresso del Pcus non siano stati affatto una degenerazione o deviazione dovuta a una mente tarata, ma, al contrario, l’esito naturale dell’intransigentismo rivoluzionario di Lenin, pronto a spazzare via, con ogni mezzo e senza pietà o rimorsi, tutti gli ostacoli che si frapponevano ai «passi cadenzati dei battaglioni ferrei del proletariato »: al Moloch della rivoluzione e al «verbo» incarnato dal partito venivano dedicate le vittime sacrificali di un culto barbarico e sanguinoso.

La conquista del potere in Russia da parte del marxismo in versione leninista ha dato origine a una «religione secolare», per usare la pregnante espressione del sociologo francese Jules Monnerot contenuta in Sociologie du communisme, che ha finito per influenzare e, in gran parte, condizionare la storia mondiale. Dal 1917 la storia è, infatti, diventata - così l’ha definita il maggiore filosofo cattolico del Novecento, Augusto Del Noce, in tanti lavori tra i quali L’epoca della secolarizzazione - una «storia filosofica» nel senso che da quel momento in poi tutti gli attori politici internazionali hanno dovuto confrontarsi, per accettarla o respingerla, con una filosofia della prassi, il marxismo- leninismo appunto, che si era «inverata» o incarnata in istituzioni politiche. Con quel che ne è conseguito soprattutto in termini di «ideologizzazione» della storia. Nell’ambito della vastissima letteratura storiografica sulla Rivoluzione russa si possono individuare, in prima approssimazione, due filoni interpretativi. Il primo è quello di impostazione marxista - le cui opere più significative sono, a mio parere, la poderosa Storia della Rivoluzione russa di Lev Trotskij e L’anno I della Rivoluzione russa di Victor Serge (ora ripubblicato da Castelvecchi) - che presentano gli eventi rivoluzionari del 1917 come un fatto «obbligato» e come la realizzazione dello Stato socialista a opera dei fedeli interpreti del marxismo-leninismo.

Il secondo filone interpretativo è quello della storiografia non comunista che parla della Rivoluzione russa come di un colpo di Stato bolscevico, ovvero di una conseguenza della prima guerra mondiale che avrebbe interrotto il lento processo di evoluzione in senso liberale della Russia avviato, sia pur timidamente, nell’ultima fase dello zarismo. Quest’ultima linea interpretativa - che annovera tra le sue file studiosi come Hugh Seton Watson, Leonard Shapiro, Mihail Geller e Alexandr Nekric, nonché Martin Malia - ha proposto una ben precisa concettualizzazione che stabilisce un nesso, mi sembra, difficilmente contestabile tra la prima guerra mondiale e lo scoppio della Rivoluzione russa. In sostanza, questa linea storiografica che potrebbe essere, sia pure in prima approssimazione, definita liberale, si oppone nettamente alle tesi «deterministiche » della storiografia marxista che presentavano già il 1914 come un anno di «prerivoluzione » al fine proprio di ridurre l’impatto devastante del conflitto mondiale sulla crisi russa.

Ed è da questa, dal suo empirismo storiografico e dal suo realismo interpretativo, che è necessario partire per comprendere come e perché la conquista del potere da parte del marxismo-leninismo abbia potuto non soltanto generare un regime criminale, ma anche condizionare la storia mondiale in nome di una utopia.

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