Cultura e Spettacoli

Vivere è una fregatura Parola di zio Willie

Non si pensi che Conversazioni con zio Willie (Adelphi, pagg. 180, euro 18, traduzione di Franco Salvatorelli), dove Willie sta per William Somerset Maugham, sia stato scritto dal nipote Robin Maugham per sfruttare la fama del popolarissimo parente.
Robin (1916-81), scrittore di suo e non ignobile, drammaturgo di vaglia, basti pensare a The Servant, Il servo, da cui Joseph Losey ha tratto il film con Dirk Bogarde, ha avuto con lo zio Willie una frequentazione assidua. Lo ammirava moltissimo, e da un certo momento aveva preso l’abitudine di annotare quel che si dicevano nelle visite che gli faceva alla «Mauresque», la lussuosa villa a Cap-Ferrat. Poi, con la morte del vegliardo Somerset nel ’65, i taccuini che Robin componeva erano finiti in qualche cassetto e, saltati fuori in un trasloco, erano parsi all’autore così ricchi di suggestioni e rimandi da meritare un ripensamento complessivo. Ne sono uscite queste Conversazioni, pubblicate trent’anni fa e mai uscite prima d’ora da noi. È un libro tenero, affettuoso, ma attento a non snaturare la testimonianza personale e a renderla degna delle evocazioni che essa suscita, carica com’è dei nessi tra vita e opera del grande scrittore, diventato alla fine un vecchio amaro, che dice di aver sbagliato tutto, che la sua vita è stata un fiasco, anche se non perde mai il suo snobistico humour nero: «Sai, molto presto sarò morto. E l’-l’idea n-n-non mi piace affatto». A volte, lo prendeva un tremore alle mani, con un sussulto si voltava spaventato verso una porta gridando: «Chi è là? No, no, non sono pronto!».
Temere la morte, certo, aveva un senso. Ma da dove nasceva la disillusione di sé, e quel lungo tormentoso mugugno accentuato negli ultimi anni? Nato nell’ambasciata britannica di Parigi nel 1874, in una famiglia dove venivano persone come Merimée, Doré, Clemenceau, in Inghilterra Maugham aveva studiato medicina e, diventato medico, aveva deciso di fare lo scrittore. A Londra, nel 1908, quando aveva 34 anni, c’erano contemporaneamente quattro sue commedie in scena nel West End, mentre il sessantacinquenne Henry James non riusciva a sfondare col teatro e ne era sconvolto. Con la guerra, a Mosca per conto del servizio segreto britannico, aveva maturato esperienze che lo portarono a scrivere Ashenden l’inglese, sorta di antefatto letterario per i futuri Ambler, Fleming e Le Carré, ed erano venuti presto i successi dei romanzi trasposti in film, Pioggia con Joan Crawford nel ’32 e nel ’54 con Rita Hayworth, Il velo dipinto nel ’34 con Greta Garbo, Schiavo d’amore con Bette Davis, e poi Ombre malesi, Il filo del rasoio...
I critici superciliosi non vollero apprezzare quella sua franchezza naturalistica, quel suo stile diretto e antiletterario, mal sopportarono il suo successo ben remunerato. Nel ’28 s’era comprato «La Mauresque», dove cominciò a collezionare pittori moderni, da Renoir a Picasso, col tempo ebbe fino a dieci persone di servizio, andavano a trovarlo il duca di Windsor e la Simpson, e i Churchill, e i Beaverbrook. Omosessuale, s’era sposato con Syrie, aveva avuto anche una figlia. A differenza di Philip, il protagonista di Schiavo d’amore, che sceglie di sposarsi e basta, Willie s’era preso il lusso di non scegliere, aveva tenuto sia la moglie, finché essa resistette, sia il «segretario e compagno», che fu poi per sempre la sua formula di vita privata. Chissà, a contraltare di una prosa perfetta, era dunque questa ambiguità dell’anima, questa omosessualità mal risolta, a creare il suo cruccio sempre più amaro.

Insieme all’insopportabile balbuzie, e a un’altra cosa che proprio non gli andava giù: il fatto di essere alto uno e sessantasette.

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