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Dalla curcuma allo zenzero In cucina si torna alle radici

Riabilitate dalla moda etnica, reinventate dai grandi chef, sdoganate ormai da tutti: sono buone e fanno benissimo

Dalla curcuma allo zenzero In cucina si torna alle radici

Radice alla brace con mollica di pane, imbevuta di acqua di mare e gocce di vino. Quando una decina di anni fa, il geniale Josean Alija (chef-patron del Nerua al Guggenheim di Bilbao) mise in carta questo piatto, anche i gourmet più esperti restarono basiti: nel suggestivo ristorante interno a uno dei musei più «cool» del mondo, si proponeva uno dei cibi più poveri in assoluto, per quanto in chiave (molto) creativa.

A parte che lo chef basco definisce la sua cucina come «muina» che vuol dire essenza, base, origine delle cose raccontò la sua scelta con grande naturalezza. «Fare avanguardia vuol dire conoscere perfettamente la tradizione, ed è ancora più bello servire un piatto del genere, semplice e potente, in un museo dove ci celebra l'arte moderna e non quella classica».

Tipica provocazione da cucina iberica: in Italia a parte le eccezioni (vedi box), le radici non sono mai state «protagoniste» di grandi piatti ma spesso fondamentali nella preparazione. Parliamo delle carote, della barbabietola, del rafano (da non confendere con il wasabi: stessa famiglia ma quella giapponese è la versione «verde» della nostra che è invece bianca), del ravanello, del sedano rapa della patata dolce e ancora del topinambur esaltato dal Fascismo al tempo dell'autarchia (per chi non lo sapesse, se ne ricavava la polvere per il caffè). Prodotti dalla doppia natura: amati dai vegetariani e odiati da chi è obbligato a mangiarle per motivi di salute. Il ritorno in grande stile sulle tavole importanti e nella quotidianità si deve non poco alla moda etnica: si è iniziato con lo zenzero (per un periodo, se uno chef non lo infilava in cinque piatti era guardato come un tradizionalista) e il ginseng, si è proseguiti con manioca, curcuma, pastinaca e si è arrivati alla daikon e alla konjac.

Caso molto interessante, l'ultima: usata da sempre in Oriente, ha trovato notorietà sostanzialmente per lo sforzo fatto dal Giappone durante Expo 2015 nel diffondere i loro prodotti: si tratta di una radice (non commestibile, appena colta) che viene trasformata in farina da case specializzati e usata soprattutto per gli acquosi shirataki (sorta di noodles trasparenti) e gli ita konjac, panetti gelatinosi. Se dal punto di vista culinario è molto versatile (risulta praticamente insapore, quindi finisce in piatti salati come in dessert), da quello nutrizionale rappresenta il sogno per chi si trova a dieta: praticamente non ha calorie (100 grammi di pasta non superano le 20), è priva di proteine, glutine e lattosio ma in compenso è ricca di minerali. L'aspetto benefico al di là della tendenza - ha contribuito non poco al momento d'oro delle radici in genere.

«Ma più che il potere benefico conta la validità della sostituzione rispetto a prodotti più classici, che non vanno bene per tutti i fisici - spiega Caterina Pamphili, nota nutrizionista del Gambero Rosso basta pensare ai cereali che danno problemi a un sacco di persone: in questo caso le radici coprono l'apporto di carboidrati senza rischiare problemi. Poi per la qualità di «collante» sono utili a creare la densità al posto del glutine, un vantaggio sfruttato dagli chef come dalle aziende. Infine, sono una miniera di vitamine e sali minerali a patto di preservarne il potere nutritivo con cotture sbagliate, oltre al gusto: possono essere preparate al vapore, al forno e pure fritte considerando il basso impatto calorico». Gira e rigira, la parola passa sempre a chi le cucina: maestri o casalinghe.

E forse per i primi, è tempo di tornare alle radici (non solo nel senso di usarle).

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