Controcultura

"Il dandy, oggi? È figlio della sindrome di Instagram e dell'esibizionismo confuso"

Tutti vogliono distinguersi dagli altri E così alla fine siamo otto miliardi di eccentrici, ognuno a suo modo La differenza la fa soltanto la vera arte

"Il dandy, oggi? È figlio della sindrome di Instagram e dell'esibizionismo confuso"

Ma è vero che il dandismo è tramontato, o ha ancora un senso? E come fa a distinguersi nella società di massa dei reality, dei selfie e dei social h24, dove tutti vogliono apparire?

Fabio Novembre - architetto e designer, pugliese per geni e l'italiano di genio più «in» del design alternativo mondiale - recita la parte (o lo è?) dell'artista chic, senza essere star, e del creativo individualista, scambiato per dandy.

Il dandy nasce nella riservatezza e muore nell'esposizione?

«Il dandy è legato all'esibizione. Non può essere un solitario: è un fiore che vive in funzione degli insetti che succhiano il suo nettare. Il dandy non è un narciso solitario che sta a casa davanti allo specchio, è un poseur».

Il guaio è che oggi tutti vogliono posare. E postare.

«Tutti si sentono nell'obiettivo della macchina fotografica, vittime della sindrome di Instagram. Fare e farsi foto. Con il proprio sorriso migliore per dire: io esisto!».

Il dandismo non è morto.

«È più vivo che mai! Un'onda pervasiva che ci ha travolto tutti. Se il dandy è un esibizionista, un poseur, allora lo siamo diventati tutti».

Oggi il dandy non rischia di confondersi con l'eccentrico?

«Il dandy è eccentrico. Per natura. Siamo quasi otto miliardi di persone, e tutti vogliamo distinguerci dagli altri, o almeno ci proviamo. Risultato? Otto miliardi di eccentrici, ognuno a suo modo».

Eccentrici nel modo di essere o di apparire?

«Di essere apparendo. Poi, da noi, in Italia, l'apparire è sentito in modo ancora più forte che negli altri Paesi. All'estero lo dicono sempre: Come vi vestite voi italiani, nessuno.... L'Italia è la patria del dandismo. Forse per il nostro retaggio estetico, il nostro esserci nutriti di bellezza nel corso dei secoli... Il fatto è che mentre in Inghilterra, ad esempio, il dandismo è sempre stato un affare solo di alto lignaggio, da noi l'eleganza, il gusto, la ricercatezza, il Bello, appartengono a tutti, indistintamente. Ricchi, poveri, uomini, donne...».

Bene. Il dandy ha ancora un senso. Ma che sesso ha?

«Confuso. Mi viene in mente il metrosexual che andava di moda qualche anno fa. Ecco, quello era un dandy perfetto nel suo essere indistinto. Oggi c'è l'hipster. Un dandy dalla sessualità non ben definita. Con la barba che diventa un simbolo omosessuale. Ti ricordi Conchita Wurst?».

Chi è il dandy?

«Il figlio dell'esibizionismo confuso del nostro tempo. Il dandy è incline all'autoerotismo. Il rischio che si innamori solo di se stesso è quello che mi fa più paura...».

Dicono che tu sia un dandy.

«No. Sono un appassionato di estetica. Ma intendo estetica come un ponte di comunicazione al servizio di tutti, non solo di me stesso. Il mio apparire è un medium comunicativo, non narcisistico. Se mi vesto in un certo modo, se frequento certi locali, non è per farmi vedere, ma per esprimere una visione del mondo».

Il vero dandy è quello che sta bene qualsiasi cosa indossi?

«Per nulla. Il vero dandy è quello che sceglie attentamente cosa indossare, anche se poi eventualmente dice che di aver scelto a caso nell'armadio... L'abito è il primo livello della comunicazione interpersonale. Io mi vesto in un certo modo perché voglio dire agli altri chi sono, cosa faccio, chi vorrei essere o cosa vorrei fare».

L'abito non è sincerità?

«È aspirazione alla sincerità. Apre possibilità».

Tutti vogliono essere diversi, però viviamo in una società di massa in cui domina la standardizzazione. Dei gusti, delle aspirazioni, degli status symbol. Anche nelle arti?

«La differenza la fanno i numeri. Un tempo c'erano pochi scrittori, pochi artisti, pochi musicisti: discipline per eletti. Oggi domina la grande democratizzazione dell'espressione artistica. Tutti credono di poter fare tutto: scrivere, comporre, creare. Ma nell'arte non c'è la democrazia. Non tutto è uguale. E il genio, il guizzo individuale, lo riconosci subito».

Nel tuo campo, il design e l'architettura, dove lo riconosci?

«Nel danese Bjarke Ingels, o nell'inglese Thomas Heatherwick: due architetti che adoperano lo spazio come medium comunicativo, proprio come lo intendo io. Due geni puri che fanno cose bellissime».

Cos'è il Bello?

«Una parola che evoca armonia, che trova subito un equilibrio. E non è qualcosa di fisso, cambia col tempo. Ma quando la vedi la riconosci.

Perché ti fa stare bene».

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