Politica

Fra Dario e Tonino finta lite sul Colle

Franceschini per l’ennesima volta difende il Quirinale dagli insulti di Di Pietro. Ma è un teatrino: il Pd non mette mai davvero in discussione il leader Idv, perché non ha la forza di rompere l’alleanza

Fra Dario e Tonino finta lite sul Colle

La sceneggiata si ripete. Antonio Di Pietro ha attaccato ancora una volta sul suo blog il presidente della Repubblica che starebbe usando «una piuma d’oca» per far correggere il decreto sulle intercettazioni telefoniche. Troppo poco per l’ex pm che vorrebbe la mano pesante contro un governo che definisce elegantemente un «manipolo di golpisti». Alle frasi di Di Pietro ha risposto Dario Franceschini che ha accusato il suo alleato di voler coinvolgere pesantemente il Quirinale in una polemica politica in modo irrituale e con toni irrispettosi. A stretto giro di agenzie la replica dell’Italia dei Valori che ha minacciato il segretario del Pd di rompere le alleanze in vista delle regionali del prossimo anno.
Non è la prima volta che Di Pietro se la prende con il capo dello Stato, né sarà l’ultima. Si è da poco spento il ricordo dell’attacco frontale a Napolitano nel corso di una disgraziata adunata di ex girotondini e di giustizialisti in piazza Navona. C’è una coerenza in quel che fa e dice il capo del partito delle manette. Ogni volta che vede affacciarsi una possibilità di dialogo istituzionale, lui interviene a gamba tesa cercando di acuire le tensioni e di tenere sotto scacco la presidenza della Repubblica. Quella che sta diventando insopportabile, e persino stucchevole, è la reazione che viene dal Pd. La tutela del presidente è solenne ma sembra stereotipata. Quasi una difesa d’ufficio che si deve fare, ma di cui non si è convinti. Un vero teatrino. Di Pietro insulta e Franceschini si scandalizza. Per quanto si andrà avanti così?
Abbiamo letto a ritroso tutte le recenti prese di posizione del segretario del Pd e anche dei suoi concorrenti alla guida del partito. Non c’è un solo passaggio dedicato al rapporto con l’Italia dei Valori. La storia di questa alleanza ha pesantemente condizionato la nascita del Pd. I fatti sono noti. Veltroni lanciò l’idea del partito a vocazione maggioritaria affossando tutti i possibili alleati. Ne salvò uno soltanto, il partito di Di Pietro.
Nel corso della campagna elettorale fu detto agli elettori che all’indomani del voto si sarebbe fatto un gruppo parlamentare unico. Si votò e Di Pietro, che si era giovato dell’abbraccio con il Pd, se ne andò da solo. Vi ricordate una reazione veemente? Qualcuno chiese il rispetto dei patti? Niente. Nei mesi successivi Di Pietro cominciò ad erodere la base elettorale dei «democrats» ma quel partito si limitò ad assistere al proprio rosolamento senza una reazione significativa. Anzi si accodò a tutte le polemiche che lo stato maggiore giustizialista decideva di mettere in campo.
Arriviamo ai giorni nostri, alla convocazione del congresso, alle candidature contrapposte. I critici, D’Alema in testa, accusano Franceschini di aver diretto male il partito. Ma non si legge una sola parola sull’alleanza con Di Pietro. Sembra un nome impronunciabile. Si può discutere di tutto, di Casini, di Vendola, delle «scosse», di iscritti, di primarie, di laicità e di teodem, ma non ce n’è uno dalle parti dei democratici che osi porre la domanda: ma che facciamo con Di Pietro? Perché non si può fare a meno di lui?
La situazione è paradossale. C’è un solo momento in cui lo stato maggiore del Pd si accorge di quanto sia pericoloso il modo di fare politica dell’ex pm ed è quando Di Pietro attacca il Quirinale. Allora si svegliano e tentano una timida contromossa. Una replica affidata alle agenzie di stampa, una breve in cronaca sui quotidiani poi tutto torna come prima.
La domanda che voglio fare è diretta: perché il Pd non può discutere di Di Pietro? Perché il Pd non si interroga sul significato di questa alleanza? Eppure l’analisi dei flussi elettorali ha dimostrato che la rapina di voti «democrats» a vantaggio dell’Italia dei Valori procede a passi lunghi. Tutti sanno che l’ex pm sta conducendo un intenso lavorio ai fianchi del Pd nella speranza, dopo il congresso, di portarsi via fette intere del partito. Una elementare logica di sopravvivenza dovrebbe portare a rimedi. Una alleanza che danneggia un partito, che ne deforma la fisionomia va denunciata. Un partito minacciato da un altro si difende. Se non si fa niente, qual è la ragione?
Probabilmente nessuno risponderà a queste domande. Probabilmente la risposta rimanderebbe a spiegazioni oscure. Allora, per favore, risparmiateci la sceneggiata e tenetevi Di Pietro anche quando attacca il capo dello Stato. Non ci sono due Di Pietro, uno con cui allearsi e uno da criticare quando se la prende con il Colle. È sempre la stessa persona, è sempre la stessa politica.

Giorgio Napolitano non merita l’affronto di questa ennesima ipocrisia.

Commenti