Cultura e Spettacoli

De André e Pfm, in un libro la magia del loro tour insieme

La voce, quella no, non c’è libro che possa restituircela. Quel timbro di lana dorata, quel decantatissimo struggimento, quel vestire l’emozione col velo stregante della bellezza. Ma che importa. Se una voce così, la voce di Fabrizio De André, è di quelle che ti s’impiantano nel cuore e ti abitano, e se da dieci anni - tanti ne sono trascorsi dal suo commiato, era una notte livida del gennaio '99, «ha combattuto contro il male come un guerriero», disse suo figlio Cristiano -, se da dieci anni la sua musica e la sua poesia rifiutano d’abbandonarci, è perché non occorrono libri né dischi, per affermare l'indistruttibile, la dolce prepotenza della poesia, appunto, e della musica. È perché c’era qualcosa in più, in Fabrizio, dei pur generosi confini della sua arte. C’era quel suo realismo così problematico, quell’acre coscienza della realtà - da profeta: ché tali, ci ha insegnato Pasolini, sono i poeti -, quel misto di risentimento e speranza che hanno fatto di lui l’involontario maestro di svariate generazioni.
Cosa emerge, di tutto questo, nella lussureggiante galleria fotografica di Evaporati in una nuvola rock, sontuoso volume edito da Chiarelettere e dovuto alle fatiche congiunte del grande fotografo Guido Harari e di Franz Di Cioccio, il popolarissimo batterista e cantante della Premiata Forneria Marconi? Forse poco, ché il libro non vuol essere un esauriente commentario della carriera artistica, né della troppo breve vicenda umana d’un poeta impropriamente definito cantautore: quello è stato tentato altrove, e talora con esiti alti. Qui l’obbiettivo era - attesta il sottotitolo del volume - proporre «il diario ufficiale della leggendaria tournée» che nel '78 affiancò l'autore di Amico fragile e del Testamento di Tito - le due pagine più alte d'un canzoniere che non conobbe bassezze - e appunto la Pfm, capifila del rock italiano.
Un intento, dunque, «di cronaca»: e tuttavia non avaro di momenti suggestivi, qua e là emozionanti. Intanto per le splendide immagini scattate da Harari e da altri, e per le brevi note firmate dallo stesso Di Cioccio, dagli altri componenti la Pfm nonché da Dori Ghezzi, Cristiano De André, Baglioni, Branduardi, Riondino, Vasco Rossi. Ma soprattutto perché dal pretesto cronachistico sbuca fuori comunque un ritratto di lui, per tanti aspetti inatteso: la forza del pensiero e il gusto un po’ goliardico, l’autoironia e l’impegno sociale, il flusso delle idee e la capacità di giocare. Il tutto sullo sfondo di «un sogno» - lo storico tour, appunto - che durante un pranzo in Sardegna fu proposto da «un acquariano pindarico e giramondo - racconta Di Cioccio - a un acquariano visionario e inquieto poeta»: da Franz, per l'appunto, a Faber, che esitò un poco e poi accettò.
L'evento fu clamoroso, e documentato da due album dal vivo. Il canzoniere di Fabrizio resse splendidamente all’impazienza del rock, che lo reinventò senza snaturarne poesia e musica. Spesso, semmai, offrendogli risonanze e colori ulteriori: i rimandi rossiniani in Bocca di rosa, o il quasi-dixieland del Pescatore che evolve in quasi-rock. E senza scalfire l'impasto magico tra una voce che «dal vivo - dice ancora Di Cioccio - è ineguagliabile sotto il profilo della narrativa, della profondità dei toni, dell'espressività», e una poesia fatta di «parole scolpite a una a una, ultimative, che non si possono sostituire, ritoccare, correggere».
Non solo. Da Evaporati in una nuvola rock - parafrasi del verso iniziale di Amico fragile - sprizza l’intreccio di straordinaria creatività, superamento dei generi, divertimento e riflessione che segnò quello storico tour. Di tormentata ricerca artistica e di chiacchierate feconde, con un De André capace di parlare con pari cognizione - rileva Harari - «di Saramago e di Bufalino, di astrologia, di arte barocca, di televendite, di calcio, di agricoltura, di donne, delle sue canzoni».

E magari di parteggiare per i suoi stessi contestatori, forte di un’etica così laica, così autonoma, così restia agli stereotipi da fargli dire che «non ci sono idee buone e idee cattive: ci sono fatti umani che, a sentire la maggioranza, vengono definiti buoni e altri che invece vengono raccolti da una minoranza e vengono definiti cattivi».

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