Cultura e Spettacoli

Delitti senza castighi Il caso Tulaev è aperto

Il belga di origini russe Victor Serge, romanziere e uomo d’azione, fu tra i primi a denunciare nei suoi scritti gli orrori dell’universo staliniano

È il 17 novembre del 1947. Alle deboli luci del crepuscolo un uomo barcolla sui marciapiedi di Città del Messico. Ha il viso emaciato, gli abiti logori, gli occhi persi. Il cuore batte forte dentro il suo petto. Il taxi sgangherato si avvicina e lui sale a fatica nell’auto. Non c’è tempo per correre in ospedale. Pochi minuti di agonia e il passeggero s’accascia esanime sul sedile posteriore. L’autista lo scarica davanti alla stazione di polizia. In un primo momento le persone che lo soccorrono pensano di avere a che fare con un qualsiasi vagabando. Ci vogliono un paio di giorni per scoprire la vera identità del cadavere: Viktor L’vovic Kibal’cic, in arte Victor Serge, storico e romanziere, politico e uomo d'azione, giornalista e saggista, nato a Bruxelles nel 1890, ma cittadino di tanti Paesi. Scrisse in francese una lunghissima serie di opere e ragionò in russo, seguendo i sentieri più pericolosi del Ventesimo secolo.
Raccontare la sua vita significa ripercorrere, una ad una, le sventurate illusioni novecentesche, specie quella, antichissima e capitale, di aver confuso il nostro mondo con un possibile altro. Figlio di emigrati russi antizaristi, Victor Serge si formò in Belgio un’anima di socialista libertario. Anarchico individualista (alla Max Stirner) nella Francia degli anni Dieci, giudicò con qualche indulgenza i rapinatori della banda Bonnot. Attivo bolscevico, in seguito schierato con Trotzkij (che lo precedette nell’esilio messicano), col quale tuttavia ruppe un’antica alleanza, questo umanistico intrepido alfiere, dopo aver partecipato allo sconvolgimento sovietico, non tardò a denunciare gli orrori dello stalinismo. Quando vide in azione coi suoi occhi i temibili agenti segreti della Ceka, pronti ad uccidere gli esseri umani come fossero formiche, non ebbe più dubbi sulla tragica piega che avevano preso gli eventi. Invece di fare un passo indietro, avanzò con tutto il corpo dentro il conflitto.
Intervenne nella guerra civile spagnola dando vita alla sollevazione popolare di Barcellona. Conobbe i rigori della Lubianka, il famigerato carcere moscovita dove venivano rinchiusi e torturati i sospetti, di qualsiasi tipo. Venne deportato a Orenburg, alla frontiera tra Russia e Kazakistan. Ottenne il permesso d’uscita dall’Unione Sovietica nel 1936, grazie alla pressione della comunità internazionale capeggiata da André Gide. Dialogò con Antonio Gramsci e George Luckas. Ebbe l’affetto e la stima di Simone Weil. Compose un’opera storiografica di assoluto rilievo come È mezzanotte nel secolo (1938) che, insieme ai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, è uno dei classici sulla rivoluzione russa. Tra i suoi libri più letterari ricordiamo almeno quelli ora facilmente disponibili in lingua italiana: Memorie di un rivoluzionario (edizioni e/o), La città conquistata (Manifesto libri) e Il caso Tulaev, uscito a Parigi nel 1948 e appena ristampato da Fazi nella traduzione di Robin Benatti (pagg. 422, euro 17,50) con un’importante introduzione di Susan Sontag comparsa nel 2004 sulla New York Review Books con un titolo emblematico: «Casi di compagni. Perché Victor Serge dovrebbe essere famoso come Koestler e Orwell».
Già. Perché dovrebbe esserlo e non lo è? Una spiegazione plausibile sembra essere racchiusa proprio in questo Il caso Tulaev, ispirato all’assassinio di Sergej Kirov, capo dell’organizzazione del partito a Leningrado, nel 1934. A colpirlo fu un oscuro militante comunista, Leon Nikolajev, che offrì il destro a Stalin per sterminare, negli anni successivi, tutti i suoi oppositori, reali o presunti. Nel romanzo Leon si chiama Kostia, giovane alla Raskolnikov che, usando la Colt del suo vicino di stanza, spara contro Tulaev, pezzo grosso del comitato centrale, senza una ragione precisa, quasi fosse il Mersault di Albert Camus. In centinaia di pagine Victor Serge non fa che illustrare, con lucida determinazione esecutiva, la sanguinosa repressione sovietica ai danni dei medesimi funzionari di partito incaricati di indagare sul primo omicidio.
Checché ne pensasse Susan Sontag, egli piega il dettato come un metallo rovente al fuoco della sua concezione tematica: il che, se non ci impedisce di registrare l’intransigenza etica alla base di tale deliberazione, finisce con il delegare alla scrittura una funzione di inevitabile riporto, sufficiente a spiegare la posizione non privilegiata di questo autore nel canone letterario del romanzo moderno. Altra è stata la sua forza espressiva. Altro il suo straordinario lascito di testimone diretto.
Per comprenderne appieno l’importanza bisogna sì richiamare i nomi di Arthur Koestler, George Orwell, André Malraux e Ignazio Silone, ma in senso oppositivo e chiarificatore rispetto alla prorompente energia conoscitiva di Victor Serge. Il quale, proprio perché non possedeva la feroce ineludibilità letteraria che divora le pagine di questi grandi autori, come un ritmo travolgente capace addirittura di far sembrar vero ciò che è falso, lasciando al lettore il riso e il pianto insieme alle idee che danno respiro all’esistenza, ce li fa capire ancora meglio: in qualche modo, perfino come scrittore, è stato un loro personaggio.

Alla fine ciò che resta di questo rivoluzionario senza partito, paradossalmente anche attraverso le migliaia di pagine composte, è comunque il suo corpo consumato nel fuoco del Novecento.

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