Politica

Delitto Biagi, niente sconti ai killer Quattro ergastoli confermati in Appello

Alla sbarra gli «irriducibili» Lioce, Morandi, Melazzi e Mezzasalma. Per Boccaccini pena ridotta a 21 anni

Claudia B. Solimei

da Bologna

La Corte d'assise d'appello di Bologna, presieduta dal giudice Aldo Ranieri, ha confermato ieri in secondo grado, dopo otto ore di camera di consiglio, gli ergastoli a carico dei brigatisti Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e Diana Blefari Melazzi per l'omicidio di Marco Biagi, il giuslavorista e consulente dell'allora ministro del Welfare Roberto Maroni, ucciso con sei colpi di pistola sotto casa in via Valdonica a Bologna il 19 marzo del 2002. Per il quinto imputato, Simone Boccaccini, i giudici d'appello hanno riconosciuto le attenuanti generiche e la pena è stata diminuita a 21 anni di carcere. Con questa sentenza, la Corte d'assise d'appello di Bologna ha confermato l'impianto accusatorio a carico del gruppo di fuoco che entrò in azione quella sera, sostenuto anche dalle dichiarazioni della pentita Cinzia Banelli.
Il procuratore aggiunto Vito Zincani aveva chiesto la conferma di tutti e cinque gli ergastoli. La vedova di Marco Biagi, presente in aula solo a un'udienza durante la requisitoria dell'accusa, ha parlato tramite l'avvocato della famiglia Guido Magnisi: «Marina Orlandi - ha riportato il legale subito dopo averle telefonato al termine della lettura della sentenza - ci tiene a ribadire che per lei non è un problema di soddisfazione, ma di riconoscimento della giustizia». Magnisi ha poi commentato lo sconto di pena a Boccaccini: «Rispetto al suo ruolo, penso sia una pena congrua e giusta». Secondo l'accusa Boccaccini, 47 anni, fiorentino, era il compagno «Carlo», la persona incaricata di andare a prendere Marco Morandi dopo il delitto. A incastrarlo, un controllo dei carabinieri il 12 marzo del 2002 a Ponte della Venturina, sull'Appennino tosco-emiliano. Boccaccini era con Morandi, suo vecchio amico. Per la pentita Banelli, quella sera a Bologna c'era stata la prova generale dell'agguato. Ma la difesa ne ha sempre chiesto l'assoluzione perché non sono mai emerse prove della sua presenza la sera dell'omicidio, il 19 marzo: «Per noi il processo comincia ora» ha affermato l'avvocato difensore Sandro Guerra.
I giudici bolognesi non hanno invece preso in considerazione le istanze dei difensori di Diana Blefari Melazzi: all'inizio del processo di secondo grado, gli avvocati Caterina Calia e Valerio Spigarelli avevano chiesto la dichiarazione della sua incapacità processuale o una perizia psichiatrica per la donna, la più giovane del gruppo con i suoi 38 anni. Le condizioni di salute di Blefari, detenuta in regime di 41 bis nel carcere fiorentino di Sollicciano, si sono deteriorate in questi anni: la donna, secondo i legali, rifiuta da tempo ogni contatto con l'esterno e in pochi mesi è passata da 50 a 80 chili di peso.
Gli altri tre brigatisti, invece, Lioce, Morandi e Mezzasalma, l'informatico del gruppo che spedì la rivendicazione dell'omicidio, si erano dichiarati fin dal momento dell’arresto prigionieri politici, rifiutando la legittimità dei giudici chiamati a giudicarli e rivendicando in più occasioni, con proclami farneticanti, il delitto Biagi. I tre irriducibili erano già stati condannati all'ergastolo, con pene confermate in secondo grado, per l'omicidio di Massimo D'Antona, avvenuto in via Salaria a Roma nel 1999.
La Corte ieri ha anche riconosciuto un risarcimento danni allo Stato di oltre un milione e mezzo: 300mila euro alla presidenza del Consiglio dei ministri; 500mila al ministero dell'Interno; 700mila al ministero del Welfare.
«La speranza ora è che questi criminali scontino interamente la pena senza ricevere sconti da qualche toga rossa» ha affermato il capogruppo della Lega Roberto Maroni, per cui Biagi mise a punto la riforma del lavoro varata dal governo Berlusconi. Soddisfatto per la sentenza, il senatore Maurizio Sacconi, allora sottosegretario al Lavoro e amico di Biagi, ha lanciato un appello: «La guardia non deve essere abbassata perché rimangono vivi i luoghi di coltura del terrorismo».
Ieri mattina, poco dopo che la Corte si era ritirata in camera di consiglio, una voce anonima aveva annunciato la presenza di una bomba in tribunale: «Siamo le Br, c'è una bomba» la frase pronunciata al telefono.

I controlli degli artificieri hanno dato esito negativo.

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