Controcultura

Demio, chi è costui? Uno sconosciuto ma di genio assoluto

Grande interprete della Maniera in Veneto, la esportò nel Meridione

Demio, chi è costui? Uno sconosciuto ma di genio assoluto

Giovanni Demio è un perfetto sconosciuto. Eppure fu un genio di prima grandezza. Cominciò a incontrare la mia strada intorno al 1978, quando si preparavano le celebrazioni per il quarto centenario della morte (1580) di Andrea Palladio. Il nome del grande architetto, creato dal poeta Gian Giorgio Trissino, evoca un mondo di perfezione e di inequivocabile fortuna che non ha l'eguale, con un corteo di fedelissimi innamorati che indica, oltre alla diffusione del suo stile nel mondo, anche un gusto, una sensibilità, una moda e, alla fine, una fortuna che supera quella di ogni altro architetto, perfino di Michelangelo e di Raffaello. Il veneto Palladio, per l'architettura, è come l'inglese per le lingue: è una lingua universale, imprescindibile, che tiene insieme l'antico e il moderno e si proietta verso il futuro. Palladio è un mondo, e genera mondi. Io ero da poco arrivato, venticinquenne, a Vicenza come ispettore storico dell'arte della nuova Soprintendenza per i beni storici e artistici del Veneto.

Nel 1972, per passione e desiderio di conoscenza, avevo frequentato, prima della laurea, per lo stimolo degli studi di Roberto Pane, il corso di perfezionamento del «Centro internazionale di studi Andrea Palladio» presieduto da un aristocraticissimo professore di altri tempi, Renato Cevese. Questo illustre studioso viveva per Palladio e, nelle sue parole, nei suoi scritti, manifestava un evidente transfert nel corpo e nell'anima del prediletto. In quegli anni, tutto fu studiato, quasi tutto fu restaurato e, io ispettore, si acquistò anche il palazzo Barbaran da Porto, in prossimità di tutte le altre architetture palladiane del centro storico di Vicenza, e nel quale sarebbe stato trasferito il centro studi. Da studente studioso a responsabile della tutela di quei monumenti, mi sentii subito investito di un compito solenne e impegnativo. Tant'è che il circolo più esclusivo della città, che aveva le sue sedute fin dal Settecento nell'omonima sede del teatro, si chiama Accademia olimpica.

Renato Cevese era uno degli accademici ma, nelle idee, nella forbita lingua e nel culto maniacale per Palladio, anche in anni ben più difficili per indifferenza e per ignoranza, assomigliava, fisicamente e psicologicamente, indossando idealmente una marsina d'ordinanza, ai personaggi sfiniti dell'Accademia olimpica. Uno di loro. Con la sua voce acuta e sottile ci indicava la necessità di farci trovare pronti per le prossime manifestazioni del 1980. La Soprintendenza non poteva avere un sostenitore più entusiasta e convinto, benché io fossi, rispetto all'attuale demarcazione delle competenze, non in quella per i monumenti, ma per i beni artistici mobili, artificiosa divisione, ora corretta. E fu così che inventai, per l'occasione, e con i magri fondi di quell'ufficio, la memorabile mostra: «Palladio e la Maniera. I pittori vicentini del Cinquecento e i collaboratori del Palladio, 1530-1630». La mostra ebbe un successo insperato, rappresentò per me anche una svolta psicologica, proiettandomi sul palcoscenico nazionale.

Il manierismo veneto, ben diverso da quello toscano, in tutto subordinato a Michelangelo, ha i volti e i nomi di Tiziano a partire dal 1539/40, di Jacopo Tintoretto e di Paolo Veronese a partire dalla metà degli anni '40 del Cinquecento. Nel 1539 muore un antesignano, il Pordenone; nel 1540 muore Parmigianino; nel 1541 arriva a Venezia Giorgio Vasari per dipingere nel 1542 il soffitto di palazzo Corner Spinelli con cinque virtù: Carità, Fede, Speranza, Giustizia e Pazienza. L'impianto di queste allegorie segna un passaggio essenziale nella formazione della giovane generazione di cui il più vecchio, sulla base dei riscontri d'Archivio, risulta essere Giovanni Demio e, benché nessun documento ce ne dica con certezza la data di nascita, siamo indotti a pensare che essa debba convenientemente cadere intorno al 1500/1505. Seguono Palladio (1508), Battista Franco (1510), Jacopo Bassano (1515), Andrea Schiavone (1510/15), Jacopo Tintoretto (1518), Giuseppe Porta (1520), Giovanni Battista Zelotti (1526), Giulio Licinio (1527), Paolo Veronese (1528). Ma sono certo che, tra tutti questi, proprio il Demio, tanto amato e considerato da Palladio, non piacesse a Renato Cevese, non rientrasse nel suo gusto classico e composto. Demio aveva reso turbolenti gli spazi geometrici di Villa Thiene a Quinto Vicentino. E probabilmente Cevese non glielo aveva perdonato. Da sacerdote del culto palladiano; e da arbiter et magister ludi aveva tenuto nell'ombra e guardato con sospetto quel fantasioso, eccentrico, curioso pittore vicentino di provincia. Di Schio. Così diverso da lui, così scomposto, impertinente, ribelle.

Un ribelle, Demio, fuori quota, incontrollabile, imprevedibile, pronto a contaminarsi con tutti i pittori più forti di vita come il ferrarese Ortolano, i bresciani Moretto e Romanino, il caravaggino Francesco Prata. E poi il così simile a lui Callisto Piazza. Di gran lunga più stimolanti, per lui, quei padani dei veneti. Eppure, come avrebbe dimostrato negli affreschi delle Grazie a Milano e come si vede nei suoi disegni concomitanti con il Primaticcio, Demio era, alla fine, un formalista, sempre più lontano dal naturalismo padano e sempre più vicino a un delirio visionario alla El Greco. Forse era il suo modo di rielaborare il dogma vasariano accusato a Venezia e trasfigurato nella Presentazione al tempio di Maiori, ispirata a quella di Sant'Anna dei Lombardi a Napoli, del Vasari. Maiori in costiera amalfitana. Fin lì e oltre si spinse Demio, in un progredente delirio; e probabilmente in andate e ritorni dal meridione, per quanto possiamo capire dalle sue escursioni stilistiche. È già stato a Napoli quando dipinge le due tele padovane di Santa Maria in Vanzo e quella vicentina di San Lorenzo, firmata e datata 1563. Rovine antiche viste a Roma sui fondali, in sintonia con quelle forse intuite dal Bassano in quel trasfigurato capolavoro che è la Madonna con il bambino e gli angeli con gli strumenti della passione del Museo di Vicenza. Dunque la lunga escursione meridionale per Demio non fu una fuga, ma un itinerario, una curiosità, una irrequietezza pasoliniana, forse incontenibile ma non inspiegabile.

Non dunque una fuga come quella di Caravaggio.

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