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Democratici in crisi di nervi. E spunta lo spettro scissione

Il Jobs Act scatena la minoranza Pd, ok a rischio se si tocca l'articolo 18. I dissidenti: "Siamo 100". E Bersani sfida il premier: "Spero mi rispetti come fa con il Cav e Verdini"

Democratici in crisi di nervi. E spunta lo spettro scissione

Lo aveva previsto già a fine luglio il renziano Paolo Gentiloni: «Lo psicodramma sulla riforma del Senato sembrerà all'acqua di rose quando si tratterà di votare il Jobs act». Previsione fondata: il Pd è in piena crisi di nervi.

E il suo segretario, nonché presidente del Consiglio, al momento tutto fa tranne che il pompiere: più la minoranza interna si imbizzarrisce e scalpita, più lui gli agita la muleta del torero sotto al naso. «Dentro al Pd c'è chi pensa di sfruttare il successo delle elezioni europee per fare ammuina», ha attaccato ieri dagli schermi del Tg2 . «Vogliono usare Renzi come foglia di fico per fare come gli pare. Ma sono cascati male, io ho preso quei voti perché voglio cambiare l'Italia davvero». Il premier difende il suo Jobs act: «Così come riformando la Costituzione non stiamo attentando alla democrazia», con la riforma del lavoro «nessuno vuole togliere diritti, ma darli a chi non li ha avuti». La vecchia guardia attaccata accusa il colpo e reagisce: «Vedo che Berlusconi e Verdini sono trattati con educazione e rispetto, spero che prima o poi capiti anche a me», replica Pier Luigi Bersani.

Da oggi, Renzi sarà per quasi una settimana in Usa, prima in California in visita a Twitter , Yahoo e alla Silicon Valley, poi a New York tra Onu e incontri politici (con Hillary e Bill Clinton il principale) e infine a Detroit con Marchionne alla Fiat-Chrysler. In patria, il suo partito continuerà nel frattempo a lacerarsi, e a tentare di lacerare lui. Domani si riuniscono in assemblea tutte le aree della minoranza. Dicono di contare su più di cento parlamentari, minacciano di far saltare il provvedimento del governo se non si troverà un «ragionevole compromesso», come dice il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano: «La reintegra del lavoratore, dopo il periodo di “tutele crescenti”, deve rimanere. E il demansionamento va tolto». Damiano avverte: «Se arrivasse, anche non richiesto, il soccorso determinante dei voti di Berlusconi cambierebbe la natura della maggioranza». Bersani si spinge fino a chiedere «libertà di voto» per i parlamentari Pd, come sulle questioni etiche. L'avanguardia del dissenso Pippo Civati assicura che la scissione è alle porte: «Un fantasma che aleggia, e non solo dalle mie parti». Al momento, in verità, si tratta più di un wishful thinking civatiano e di pochi altri (come Stefano Fassina, che assicura: «Non voterò mai le riforme che piacciono alla destra») che di un rischio concreto. «La minoranza chiederà di potersi contare nei gruppi, anche dopo la Direzione - prevede un renziano della segreteria Pd - ma è l'unica arma vera che hanno. Renzi sarà durissimo fino in fondo, e voglio vedere chi avrà il coraggio di spaccare il Pd: Bersani e compagnia non possono permetterselo, e comunque non li seguirebbero neppure i loro».

Il sospetto nelle file anti-renziane è però che il premier stia giocando al «la va o la spacca»: alzare l'asticella sul Jobs Act fino a far saltare il banco, e andare al voto in primavera usando la guerra ai conservatori di sinistra come campagna elettorale. Il timore degli ex Ds è che Renzi, dopo aver tolto loro le chiavi della «Ditta», voglia definitivamente liberarsi della loro ipoteca sul Pd, per trasformarlo «nel PdR, partito di Renzi», come teme Fassina. Per questo, più che nella «battaglia a visto aperto» sul Jobs Act annunciata da Damiano, la minoranza Pd si sta concentrando su un'altra operazione, meno aperta: alimentare l' impasse sulla Consulta per bloccare il Parlamento, e imbastire quella che un dissidente anti-Renzi chiama «una nuova operazione Rodotà»: mettere in pista un candidato «in grado di spaccare il Pd e far saltare il patto del Nazareno».

Perché è l'intesa sull'Italicum «il nostro primo obiettivo».

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