Controcultura

«The Dirt» Una bella fiction sul rock sporco

Divertente ed eccessivo fino al parossismo, The Dirt rischia di diventare uno dei migliori biopic rock and roll, genere rilanciato dal recente successo di Bohemian Rhapsody ma che in fondo è sempre piaciuto ad appassionati e non. Solo che qui non sono celebrati, in vita e in morte, eroi come Freddie Mercury o (in altri tempi) Jim Morrison, ma i disgraziati e maldestri componenti dei Mötley Crüe, una band che ha fatto la storia del glam rock losangelino. Non perché abbia scritto pagine musicali memorabili (anche se di dischi ne hanno venduti oltre cento milioni) ma per i comportamenti violenti, trasgressivi, fuori legge, diseducativi: tutto quanto fa stereotipo di quel rock che non piace ai genitori, agli uomini di Chiesa, al perbenismo, in The Dirt c'è. Nulla escluso: sesso, droga, alcol, hotel distrutti, bravate senza senso, tragedie, morte, resurrezione. I Mötley Crüe erano questa roba qua e i loro fan li amavano soprattutto per questo, perché loro potevano fare qualsiasi cosa, ben aldilà del limite, trucco e parrucco compresi. Sennò non sarebbero stati star del r'n'r.

Pochi giorni dopo l'uscita ufficiale a Hollywood, Netflix ha programmato in tutto il mondo The Dirt, la loro storia, diretta da Jeff Tremaine e ispirata alla biografia scritta da Neil Strauss. Pare che i «veri» Mötley Crüe, ormai vecchietti e definitivamente ritiratisi dalle scene, abbiano pianto di commozione vedendosi interpretati sullo schermo da attori veramente bravi: Douglas Booth è Nikki Sixx, di cui si racconta il dramma infantile, il rifiuto della madre e della propria identità che lo spinse a rifiutare il proprio nome; Iwan Rheon è Mick Mars; Richard Colson Baker interpreta Tommy Lee e Daniel Webber fa Vince Neil. Semplicemente fantastici. Intorno è un profluvio di groupie, spacciatori, affaristi e colleghi, tra cui il leggendario Ozzy Osburne, impegnato nella scena più trash del film degna del «peggior» John Waters.

I puristi del r'n'r hanno trovato diversi errori, omissioni, reinvenzioni, semplificazioni che allontanerebbero il film dal vero. Ma un film, appunto, è un film e, come un romanzo, può alimentarsi nella finzione, niente di male (di sviste, più o meno clamorose, si parlò anche per Bohemian Rhapsody). E neppure la critica, evidentemente revisionista, è stata tenera con The Dirt, definendolo (come il metal accusato di satanismo) un pessimo esempio per i giovani.

Massì, lasciamoli questi giovani ad anestetizzarsi con il rap periferico tutto uguale o con il pop di plastica, con la brutta musica e godiamo di essere arrivati in tempo per avere attraversato gli anni '80, così clamorosamente falsi, bislacchi, accettandone i luoghi comuni e la propensione alla farsa. Là c'erano le chitarre e l'energia, i capelli cotonati e le voci in falsetto. L'eroina, lo speed e il porno. Non sono morti tutti, qualcuno è invecchiato e come tutti i vecchi si commuove a rivedersi com'era. Basta avere la consapevolezza di prenderlo come un (in)sano divertimento.

Così The Dirt spacca per davvero.

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