Roma

Il disperato (e comico) bisogno del nido

Pensare che si tratti di un testo del ’92 ci conforta nella convinzione che certe intuizioni letterarie riescono a tradursi in vere premonizioni sociologiche o storiche: la pièce Immobildream dello scrittore e giornalista Luca Archibugi, vista all’Atelier Meta-Teatro con la regia di Alberto di Stasio, sembra scritta ieri. Nel raccontare la curiosa storia di due coppie che, condividendo lo stesso spazio vitale (ovverosia il lussuoso appartamento che Sara e Carlo devono lasciare in seguito a un crac finanziario e che invece Irene e Giulio si accingono ad abitare come nuovi e legittimi proprietari), si scoprono simili in molte cose, l’autore afferra per il bavero il tema dell’instabilità legata al bisogno di un nido/dimora usandolo a preteso per (farci) riflettere sulla crisi dell’identità personale, sulla vacuità del reale e tanto più, sull’ambiguità e «il dolore» del linguaggio (con buona pace di Wittgenstein).
Un tuffo nella pericolosa voragine del Moderno affrontato però con grinta paradossale, attraverso una burlesca girandola di situazioni che ricorda Ionesco, Copi e l’insinuante vena grottesca di Pirandello. Come capita in altri lavori di Archibugi (segnaliamo almeno l’intenso Edipo di Spinaceto), anche qui i riferimenti letterari e filosofici risuonano copiosi, complice la dedica a Hölderlin e al suo alter ego Scardanelli, presente/assente nella vicenda sotto forma di psicanalista. Il regista, da parte sua, accentua gli aspetti vigorosamente teatrali del testo esasperando la fisicità degli interpreti in modo caricaturale e ginnico, tanto da «ridurli» ad automi insofferenti che si muovono, nevrotici e incerti, nel campo minato della vita. Mariano Aprea, Antonio Mastellone, Almerica Schiavo ed Elisa Veronica Zucchi accondiscendono con slancio questa linea espressiva e, anzi, si divertono (divertendo) a lambire la parodia. Parodia tanto più efficace perché costruita su patologie femminili degne di Freud.

Sara/Schiavo mostra un’irrefrenabile pulsione erotica per gli ambienti della sua ex-casa mentre Irene/Zucchi è affetta da «anomia»: non collega le parole agli oggetti, scambia «cinepresa» per «camera», «noi» per «voi». Ma se in fondo, sembra dirci l’inatteso finale, «noi» fosse davvero uguale a «voi»?

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