Cultura e Spettacoli

Le divinità antiche somigliano a quelle moderne

Il mito greco è come l’uovo. C’è chi lo strapazza e lo frulla con gli ingredienti più piccanti della psiche. E così si spiegano i «complessi»: di Edipo, di Elettra, di Narciso. Altri lo servono a frittata, spalmandolo sugli eventi storici. Un esempio: gli Indoeuropei, nomadi invasori, guerrieri e cacciatori con il culto del Cielo, calano dalle steppe orientali in Grecia e sopraffanno gli antichi abitanti, i Pelasgi, campagnoli devoti alla Terra.
Ma l’uovo si serve anche fresco, crudo, fragrante. È la ricetta del grecista Giorgio Ieranò in Olympos. Vizi, amori e avventure degli antichi dei (Sonzogno, pagg. 256, euro 16). Qui assaporiamo il tuorlo originario, la massa smagliante dei racconti. Il modello è ben oliato. Lo usarono il greco Apollodoro, nella sua Biblioteca e l’americano Nathaniel Hawthorne nel suo Libro delle meraviglie. Ingolosisce sempre, perché il mythos è nato come narrazione, passione di fingere e comunicare un mondo diverso, specchio camaleontico del nostro. La fantasia mischia i superpoteri degli dei e degli eroi alle manchevolezze umane, regalando l’evasione dalla palude dei giorni. Ieranò si ispira anche a Pausania, che condiva le sue cronache di viaggio nella Grecia di allora con le leggende locali.
Partiamo dall’Olimpo, un «condominio di matti», ma vagabondiamo tra Santorini (la Thera che forse fu Atlantide), la Delfi delle Sibille, l’enigmatica Creta, i templi di Olimpia e di Atene. Strada facendo, ci intrappola uno dei meccanismi narrativi più brillanti: la metamorfosi, di cui fu maestro Ovidio. Un malato di sesso, Zeus, il primo della lista, ne abusò per tutte le sue galanterie. Diventò un toro per rapire Europa, una bellezza fenicia il cui fratello, Cadmo, partito alla sua ricerca, costellò di città da lui fondate il continente omonimo. Il dio sovrano indossò le piume del cigno per ammaliare Leda. Si polverizzò in cascata d’oro per violare la torre sigillata di Danae, e farla sua. Si ridusse a cuculo per farsi coccolare in grembo a Era, la sua futura consorte, salvo poi riprendersi le maestose sembianze e piegare la dea ritrosa alle sue voglie.
La morale, secondo Ieranò, sarebbe che sotto le spoglie di un timido volatile spesso si cela l’aquila, l’emblema del dio olimpico, seduttore-predatore. Donne avvisate, mezzo salvate. Chi di eros ferisce, di eros perisce, e soffre. Zeus lo sperimentò sulla propria pelle, vedendo le amanti devastate dalla stizzosa Era, che mutò in giovenca la bella Iò, costringendola a correre massacrata dalle trafitture di un tafano abnorme. Napoleone, nel 1802, decretò che un vero soldato non doveva mai arrendersi all’amore. Da che pulpito: da parte di uno che di sventure amorose ne aveva patite tante, soprattutto per colpa della Beauharnais, moglie ribalda.
Una delle formule ricorrenti nel libro è: «ancora oggi». Il mito serpeggia immortale nei millenni. Prendiamone atto. Jim Morrison, il leader dei Doors, si sentiva un Dioniso reincarnato e le sue esibizioni innescavano orge sonore simili ai riti scomposti dell’ebbrezza e dell’autoliberazione. Ippolito, con la sua fissa per il naturismo, la vita all’aria aperta e la castità forzata anticipa certi fanatismi new age. Il mito s’intrufola nel linguaggio comune. Il «panico» è ancora quel confuso terrore che aleggiava al cospetto della Natura misteriosa e potente, quando nel silenzio plumbeo del mezzogiorno assolato arrivava Pan, il suo dio. Gli dei dell’Olimpo surclassano l’uomo. Ma hanno uno svantaggio di fondo. Sono eterni. Si crogiolano nei piaceri, ma sono ripetitivi. Alla fine, noia e disgusto. Noi abbiamo un detonante: la mortalità. Viviamo l’attimo allo spasimo: potrebbe essere l’ultimo. Loro non possono. E per questo ci guardano storto.

Ci invidiano.

Commenti