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Dodici giorni che possono cambiare la Storia

Si sa come le guerre cominciano ma non come finiscono. Tutte però portano cambiamenti. Nella guerra di Gaza alcuni sono già visibili. Altri emergeranno meno come conseguenza dei combattimenti che della percezione dei loro reali o immaginari risultati.
Di cambiato, in Israele, c'è l'esercito che ha ritrovato la fiducia in se stesso e nei suoi comandanti. C'è un capo di Stato maggiore che comanda e tace con ufficiali e soldati che non hanno più il permesso di telefonare a casa. C'è un premier che evita il protagonismo; un ministro della guerra che promette una lotta dura, lunga e priva di trionfalismo. C'è un ministro degli Esteri che usa poco l'informazione del suo ministero e molto le apparizioni personali per allargare le divisioni sul piano internazionale. Queste divisioni sono risultati evidenti di questa guerra: incapacità dell'Europa di formulare una politica chiara e unita; vacuità del protagonismo presidenziale francese; sostegno tedesco e italiano, prudenza russa, assenza americana.
A livello regionale i cambiamenti sono notevoli: rottura dello schieramento arabo, con rinnovata dimostrazione di impotenza della Lega araba; prudente riemergere della leadership dell'Egitto come fattore capace di apportare soluzioni a favore dei palestinesi di fronte alla passività saudita e alla vuote dichiarazioni di sostegno della Giordania, dei paesi del Golfo, dell'Iran. La sospensione delle azioni militari israeliane per la durata di tre ore onde permettere l'entrata a Gaza di convogli di aiuti umanitari sembra avere anche il compito di privilegiare l'azione diplomatica del Cairo per raggiungere un accordo di tregua più prolungata. Comunque, vedere Khaled Meshal, leader di Hamas residente a Damasco inviare - apparentemente senza coordinamento con il governo di Gaza - due delegati al Cairo per chiedere l'intervento del presidente Mubarak per rinnovare la tregua è significativo anche perché ormai Gaza è passata sotto il controllo dell'ala militare di Hamas: l'organizzazione Izadin al Kassam è desiderosa di continuare la lotta a tutti i costi e considera la popolazione la sua più importante linea difensiva.
In Israele si nota il crescere di autocontrollo dell'opinione pubblica (nonostante l'insistenza di scrittori a dare ai politici e ai militari consigli non richiesti) assieme al crescere del realismo dovuto anche alla stanchezza di un popolo troppo provato dalle guerre. Altro segno: la diminuita sfrontatezza dei nuovi milionari parvenu (anche a causa della crisi finanziaria) e il diminuito tono belligerante della destra, anche se sceso meno dello stridore petulante degli ortodossi che rifuggono dal servizio militare. Le cose cambieranno quando al rombo dei cannoni si sostituirà il rumore della propaganda elettorale. Per tutti gli estremisti di destra e di sinistra sarà difficile tornare alle posizioni di prima perché il pubblico israeliano si rende conto che da questa guerra lo Stato può uscire solo vincitore ai punti con una tregua internazionalmente garantita che non distruggerà Hamas.
Per i Palestinesi la frattura fra Gaza e la Cisgiordania si rivela più profonda di quella fra al Fatah e Hamas. Non ci sono attacchi suicidi invocati dal Libano dal leader degli Hezbollah, che non sembra disposto ad aprire un secondo fronte contro Israele.

Quanto al milione e mezzo di arabi israeliani che Gerusalemme sperava di poter politicamente ammansire con l'integrazione economica, scoprono che questa guerra ha già distrutto quel poco di fiducia che gli israeliani ebrei avevano in loro, assieme all'idea di uno Stato palestinese non islamico nel prossimo futuro.

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