Controcultura

A Roncole, nella casa-museo dello scrittore più amato di tutti

Il figlio Alberto: "Traduzioni, studi e tesi... nessuno è amato come lui"

A Roncole, nella casa-museo dello scrittore più amato di tutti

nostro inviato a Roncole (Parma)

Buona terra, poche case, meno parrocchie d'un tempo, le sezioni di partito sparite. Eppure, qua attorno, a cinquant'anni dalla morte di Giovannino Guareschi, è cambiato nulla o poco. Campagna, ricordi, tempi lenti, maglioni pesanti, mani come badili. Scarpe grosse e anellini fini.

Benarrivati a Roncole, Bassa parmense, 15 chilometri da Fontanelle di Roccabianca, cuore del «Mondo piccolo», dove Giovannino nacque, era il 1908. Il grande casone dei Guareschi confina con la casa natale di Giuseppe Verdi. I talenti si cercano. Lo scrittore-giornalista tornò qui da Milano, comprando un pezzo di terra, nei primi anni '50, per stare con la sua gente. Al piano terra c'è ancora il «Caffé Guareschi» (col logo coi baffoni) che lo scrittore fece costruire nel 1957 («Scusa Indro, ma adesso devo lavorare, sai, perché è una cosa seria questa, non è mica giornalismo e neanche letteratura: io faccio il caffettiere!», disse a Montanelli in una puntata del programma tv Incontri). Il ristorante invece ha chiuso nel '94. Dentro oggi c'è una mostra permanente: la bici originale dei film, il «Guzzino» che usava Giovannino per scorrazzare per la Bassa, manifesti, le foto del vero Don Camillo, un arciprete del paese della madre, di Marore, e del vero Peppone, un sindacalista socialista-riformista... Il resto della casa - il primo piano e quelle che erano le cucine del ristorante - è stato trasformato con guareschiano senso pratico in un tempio letterario alla memoria di Giovannino. Il cui custode - «Prima eravamo in due, mia sorella Carlotta è mancata nel 2015» - è il figlio Alberto, uomo solido e sincero, 78 anni. «Ne avevo 28 quando morì, me lo ricordo bene...». Qui c'è l'archivio, la biblioteca («Tutti i libri che ha scritto mio padre, più quelli scritti su di lui, trecento, più le tesi: la prima la chiesero 25 anni fa, l'ultima di quest'anno è di un dottorando egiziano dell'Alma Mater di Bologna...»), e poi la sede del Club dei 23: «Abbiamo ripreso una frase di papà, che diceva di avere 23 lettori. Era partito da 25, come il Manzoni, che amava tantissimo, poi per modestia se ne tolse un paio...».

Racconti di una famiglia qualunque. Mi dice: «Lei è venuto qui per sapere cosa resta di Guareschi oggi, a cinquant'anni dalla morte, dopo che a lungo la cultura ufficiale lo ha ignorato perché era dalla parte sbagliata, cattolica e anticomunista? Quando, ancora in vita, tutti vedevano i film di Don Camillo e Peppone ma sapevano a stento che dietro c'erano i libri di un vero scrittore, e di un uomo straordinario? Bene. Ecco cosa resta...».

Resta una intera parete, nel grande salone che fa da «Centro studi» - camino, tavoloni in legno, sedie impagliate della Bassa - strapiena di libri del Don Camillo tradotti in tutte le lingue del pianeta. Manca solo il cinese. «Mio padre è uno degli scrittori italiani più venduti nel mondo. Dieci anni fa sono stati calcolati 20 milioni di copie... Chissà oggi quanti sono. Di certo è il più tradotto. È amatissimo, ovunque». C'è l'opera omnia che stanno traducendo in sloveno, accanto c'è il serbo, l'ungherese, il greco classico («Ma c'è anche il moderno»), il turco, «Qui non si capisce, credo sia coreano..», l'arabo, «in Russia fino alla caduta del Muro non si poteva neanche citare... hanno iniziato a tradurlo da poco, e piace moltissimo», poi c'è il maltese («hanno appena fatto la versione ufficiale, l'edizione pirata gira da anni...»), mentre in inglese sta uscendo la traduzione integrale. «I primi libri di papà uscirono negli anni '50, durante il maccartismo, e tagliarono le parti in cui Peppone, comunista, veniva fuori troppo bene... Pensa te». Ci sono persino i titoli in dialetto. Bresciano, bolognese... Al cunpâgn Dan Caméll.

Contrordine, compagni. Guareschi oggi è popolarissimo, letto, tradotto, studiato, amato, e i suoi film continuano a passare in tv, estate e inverno. «Anche se i francesi, Julien Duvivier e René Barjavel, non lasciarono che mio padre mettesse mano nella sceneggiatura ufficiale, perché avevano paura che il pubblico non capisse il suo umorismo...». Ecco, tirate fuori dall'archivio, i dattiloscritti con le sue sceneggiature. Inedite. C'è ancora da studiare, e da scoprire.

L'archivio di casa-Guareschi è sterminato. «Io e mia sorella Carlotta abbiamo catalogato 200mila documenti... Adesso mi aiutano le mie quattro figlie. C'è di tutto».

C'è - al primo piano - quella che fu la biblioteca personale di Giovannino, qualche centinaio di volumi: di grafica soprattutto («Come disegnatore, era appassionatissimo. Da Cesarino Branduani, il libraio milanese, si faceva mandare tutti i più bei libri illustrati che uscivano, da tutto il mondo. Voleva vedere l'evoluzione degli stili»), poi i libri dei colleghi umoristi: Carletto Manzoni, Mosca, Marotta, Alberto Cavalieri, Massimo Simili... Poi intere annate della Domenica del Corriere («Il suo Google. Se gli serviva sapere qualcosa, lo trovava lì dentro»), due scaffali di cultura cattolica («I dialoghi che mette in bocca al Cristo sono tutti nel pieno rispetto dell'ortodossia») e i libri della «Medusa» (amava Hemingway e Maupassant più di tutti... Hanno sempre presentato mio padre come un ignorante che non leggeva... A lui andava bene così»).

Di sotto, invece, c'è il sancta sanctorum guareschiano. Ordine, memoria e cartelline. «Mio padre, come i contadini, non buttava via niente». Tutti i numeri del Borghese, il Candido, un armadio con gli originali dei suoi disegni e di tanti suoi amici, salvati dal macero («Guardi, questi sono di Saul Steinberg, aveva 17 anni e collaborava per il Bertoldo e poi per Settebello...»), ecco i faldoni con i «Discorsi», le «Introduzioni», gli «Autografi». E poi migliaia di foto, appunti, bozze, dattiloscritti.... «Se ci sono inediti? Sì, certo. C'è un romanzo umoristico, Stefania tra i boeri, che scrisse nel 1941-42, ma che decise di non pubblicare, lo considerava un libro sbagliato. E noi lo lasciamo nel cassetto...»). E ci sono soprattutto, su grossi scaffali metallici, decine di casse di legno, con il nome di tutte le regioni italiane scritte in pennarello, che contengono le lettere ricevute da Guareschi quando - unico giornalista italiano a scontare una pena detentiva in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa - finì, maggio 1954, in una cella del San Francesco di Parma per il famoso affaire De Gasperi. Ci rimase 409 giorni. «Ricevette 27mila lettere». Dalla gente di Roncole, da Almirante, da Sophia Loren... «Diceva che gli hanno permesso di non impazzire.

A noi figli, di sapere quanto era amato».

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