Cultura e Spettacoli

Don Mimì, il vivacissimo napoletano

Escono per Mondadori le «Opere» dell’autore che ha dato voce all’anima partenopea più verace

Quando una volta sul buco nero del lago Albano mi disse che invece di scrivere versi dovevo aprire una macelleria, non sono riuscito a odiarlo. Sarebbe stata la cosa più facile per un giovane innamoratissimo della «velocità», della «leggerezza», dell’«esattezza», della «visibilità», della «molteplicità». Don Mimì non sono riuscito a detestarlo perché anche viso a viso - e dopo che lo avevo amato come scrittore -, mi aveva dato «la scossa»: quella specie di fulmineo passaggio elettrico che sottopelle ricevi dalla scrittura di un narratore irripetibile.
È l’intensissimo e noncurante (nei confronti delle ideologie letterarie passate presenti e future) saggio di Ruggero Guarini - il quale apre il Meridiano Mondadori sulle Opere di Domenico Rea -, che mi ha riportato a galla i Principi Capitali della «leggerezza» eccetera, vanto dell’intelligenza del Calvino americano ma acqua, farina, fuoco, cioè ingredienti proprietà di quel talento «creaturale» di Don Mimì nel sentire la letteratura come «la vita, come un dono meraviglioso e terribile, eternamente effimero». È fantastico il saggio di Guarini. È realistico pensare che certe facce di scrittori sono antipatiche o simpatiche come i loro romanzi.
Ma Don Mimì che faccia aveva? Allora sono tornato a Napoli, a casa sua. In quella casa a Posillipo che quasi con due bracciate d’aria tocchi Palazzo Donn’Anna, e Capri che la intravvedi non troppo da lontano. Capri che, quando è chiaro, sembra il gargarozzo di un pollo.
Stavolta la signora Annamaria, moglie di Mimì, invitandomi a colazione non mi domanda, come usava il marito, «carne o pesce?». Però due spaghettini di Gragnano con pomodorino e cappero li prepara in pochi minuti intanto che conosco anche Lucia, sua figlia, e Fiammetta la figlia di Lucia che è una ragazza-fiamma vera e propria e che ha il nome della Fiammetta del Boccaccio, uno dei cinque o sei Dogmi del «diavolicchio», della «creatura», del «folletto», del «bambino», dello «spudorato» (Maronna!, che scrittore) Rea, Mimì Rea che questa fiamma di nipote l’avrebbe adorata come le altre sue creature: la Lenuccia de La «Segnorina», e la Miluzza di Ninfa Plebea perché tanto la levatrice, sua madre, protagonista del primo romanzo Una vampata di rossore resta la madre delle madri, là, a respirare in una lingua sopraffina, anzi, antitellurica, antivulcanica addirittura. «Elicoidale» come dice Guarini. E a «tirabusciò» come ripeteva Rea. Ma oggi Napoli l’ho trovata sciantosa e per niente smottante. E pensare che Domenico Rea ha incarnato gli sgroppamenti del Vesuvio e la testa di brillante del passato greco, classico. Come Verga. Infatti dopo Giovanni Verga è il migliore sulla distanza breve e Il Migliore (ovviamente non di Togliattiana memoria anche se sulla prima pagina della Pravda, nel 1953, gli era stato pubblicato un racconto tutto intero) della sua generazione: sono d’accordo con Ruggero Guarini.
«Mimì era considerato il signore più elegante di Napoli!». Mi spara divertita Annamaria.
«E le giacche erano di Rubinacci o Attolini?», le domando vedendo che questa casa è una specie di yacht con il terrazzo piastrellato dove una notte Eugenio Montale, pensate, si è messo a cantare La traviata e dove Mimì invece di un libro mi regalò una cravatta di Marinella al quale scriveva raccontini per Natale.
«Rubinacci, Rubinacci, a via di Mille!».
«Ah sì, eh? Perché lui passava delle ore...».
«Parlava con tutti!» riprende Annamaria che ha gli occhi acquosi e sorride come se Mimì, quello che i genitori non le volevano far sposare perché non intendevano con quali danari potesse mantenerla, fosse là sul corso di Nocera (dove Annamaria era sfollata insieme alla famiglia) con quella sua «vivacità», «intelligenza»: «Perché sa che cosa le dico, Mimì non è che fosse un granché di bellezza, ma era intelligentissimo, vivacissimo, è per questo che gli ho detto sì».
Eccolo Don Mimì che spunta da una foto sul terrazzo. Sembra un serpentello con la testa da serpente per quanto è magro. Qui invece ha i capelli di sempre e la faccia «a saponetta», come gridò Carmelo Bene a Bonito Oliva. Ha gli occhi che sono due spilli; il farfallino; gli occhiali a rettangolo; la giacca a quadretti perché, lui, anche se nell’esilarante libretto L’ultimo fantasma della moda fa le pulci all’uomo elegante, vestendolo dai piedi alla testa: con calze nere, scarpe nere, pantaloni neri, camicia bianca e giacca nera con cravatta nera, più l’immancabile fazzolettino al taschino bianco e mai leziosamente ripiegato ma decisamente spampanato, ecco Mimì amava indossare di Mariano Rubinacci i cammelli, i chiari, le stoffe inglesi, senza dimenticare che i sarti inglesi hanno imparato a Napoli. Ma questa è la descrizione della sua faccia fatta da Guarini che l’ha pensato più di me: «...che bella faccetta aveva. Bella e terribile. La faccia di un folletto insieme allegro e torvo, crudele e tenero, euforico e in segreto disperato. Torno a pensarci mentre lui, con quei suoi ferocissimi occhietti e quel suo furbissimo sorriso, torna a sua volta a fissarmi, e probabilmente anche a sfottermi, da una vecchia fotografia».
«Ogni sera invitava amici e conoscenti. Operai, benzinai, pescivendoli... e io là a cucinare. Invitava tutti, ma guai ad arrivare in ritardo o in anticipo. Se si arrivava in ritardo all’appuntamento fissato Mimì era capace di fare una filippica impressionante. Una volta toccò anche a Lina Wertmüller. Invece chi si presentava in anticipo, conoscendo le abitudini aspettava in giardino l’ora fissata per suonare il campanello».
Annamaria racconta Mimì come se per una vita fosse stata dentro una favola, eppure Rea non è che fosse un tenero... «Ma lo sa che cosa mi diceva Jack Kerouac quando mi corteggiava e io gli dicevo di no?».
«Ma come Kerouac!» salto sbalordito quando sento pronunciare il nome dell’americano mito della Beat Generation. «Kerouac che cosa c’entra?».
«Ma lui è stato qui da noi, a trovare Mimì. Lui mi corteggiava alle spalle di Mimì. Mi diceva: ci vediamo fuori, ci vediamo fuori. Poi quando vedeva che non me lo filavo mi apostrofava: sporca borghese!, sporca borghese!».
Intanto Lucia, unica figlia di Annamaria e Mimì, è sparita per via dei compiti di greco di Fiammetta, e Lorenzo, l’altro figliolo, noto che è alto e tosto come un giocatore di basket.
Quando Annamaria ha cercato di raccontarmi come Don Mimì ci ha lasciato, ha trattenuto le lacrime e ha tirato fuori un riserbo e un rispetto senza prezzo. Ha detto: «Ictus. E poi all’ospedale di Benevento l’abbiamo trovato che fumava beato».

Se quella parola, «ictus», l’avesse ascoltata il terribile lazzaro vestito da principe profumato ma sempre lacero di convulsioni Rea, lo stesso che avrebbe dovuto interpretare Uccellacci e uccellini accanto a Totò al posto di Ninetto Davoli, avrebbe lanciato un suono a forma di forchetta: quella con la quale una notte d’estate, sul suo terrazzo, voleva infilzare quel pezzo di collo di pollo che è Capri.

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