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Le donne mollano l'auto e salgono sull'aratro

Le donne mollano l'auto e salgono sull'aratro

Elisabetta è una giovane ragazza fiorentina con una laurea in Economia del turismo in tasca e un sogno: far rivivere l'antico podere di famiglia e trasformarlo in un agriturismo nel quale gli ospiti possano godere della bellezza delle colline del Chianti e assaggiare frutti antichi autoctoni toscani, ormai in gran parte dimenticati. Con questo desiderio nel 2014 ha lasciato la città e, insieme con il suo compagno, si è trasferita in campagna. È diventata un'imprenditrice agricola e oggi assicura che la vecchia vita non le manca affatto. Perché «non ci si annoia mai del silenzio e della bellezza della natura».

Elisabetta è una delle tantissime donne che, nel nostro Paese, hanno deciso di dedicarsi all'agricoltura. Ormai formano un piccolo esercito di contadine che cresce di anno in anno. A dimostrarlo sono gli ultimi dati diffusi da Coldiretti: in Italia più di un agricoltore su quattro è di sesso femminile, le donne rappresentano il 29 per cento del totale. Per quasi tutte la campagna è una scelta di vita, che si traduce nella volontà di abbandonare città e lavoro fisso per vivere all'aria aperta, a contatto con la natura. Il fenomeno è in continua crescita da circa dieci anni, con un tasso di incremento anno del 6,6 per cento. E infatti solo nel 2017 sono nate 13.887 nuove società agricole al femminile. Sono cascinali sperduti, ma anche agriturismi alla moda. Fattorie didattiche e attività legate al benessere.

Dalla disco alle stalle

«L'agricoltura permette di coniugare al meglio tempi di vita e di lavoro. Anche per questo è molto apprezzata dalle donne. Non è un caso che la media di imprese agricole femminili sia del 30 per cento anche nel resto d'Europa», spiega Silvia Bosco di Coldiretti. «Una grande spinta nel nostro Paese è arrivata dalla legge di orientamento del 2001, che ha permesso di trasformare queste realtà in attività imprenditoriali a 360 gradi, offrendo ottime opportunità anche alle nuove generazioni. Sono nate così le fattorie didattiche, le fattorie sociali e molte altre imprese diverse rispetto al passato». Al timone ci sono spesso ragazze giovani, a volte laureate e per nulla spaventate dalla dura vita di campagna.

Per tutte loro la sveglia suona prestissimo ogni mattina e la giornata è scandita dalle esigenze delle coltivazioni e degli animali. Sempre secondo i dati diffusi da Coldiretti, queste contadine 2.0 hanno mediamente un'età compresa fra 40 e 60 anni e nella maggior parte dei casi sono italiane. Ma c'è anche un nove per cento molto più giovane, che alla discoteca e ai locali alla moda preferisce stalle e fienili. E che sceglie di tornare alla terra anche per innovare. Non è un caso che, secondo la fondazione Campagna amica, il 30 per cento delle iniziative a chilometro zero nel nostro Paese siano state lanciate da donne. Le Regioni più attive da questo punto di vista sono Molise e Valle d'Aosta, seguite da Umbria e Liguria. In generale però il maggior numero di imprese agricole femminili è concentrata al Sud: secondo i dati Unioncamere, Sicilia (11,6 per cento), Puglia (11,2 per cento) e Campania (10,4 per cento) assorbono da sole più di un terzo del totale attivo a livello nazionale.

Bio e benessere

«Naturalmente questo boom è stato accelerato anche dalla crisi economica prosegue Bosco -, perché la recessione ha permesso di riprendere in considerazione opportunità che prima erano scartate a priori. Da allora questo lavoro è stato progressivamente nobilitato. Oggi fare il contadino significa essere imprenditore, saper innovare ed essere in grado di usare al meglio le nuove tecnologie». Lo sanno bene le donne che, non a caso, nella maggior parte dei casi guidano imprese moderne e diverse rispetto all'idea tradizionale di azienda agricola.

«Le loro imprese sono quasi sempre multifunzionali conclude Bosco -. Il 13 per cento coltiva con il metodo biologico, moltissime altre guidano realtà orientate al benessere e ai servizi alla persona come per esempio la pet therapy, ma anche fattorie didattiche e sociali». Proprio per questo rappresentano un valore aggiunto importantissimo per tutto il settore. «Le imprenditrici sembrano privilegiare attività maggiormente legate allo sviluppo di prodotti di qualità e ai sentieri della diversificazione conferma Marcello De Rosa, docente di Economia agraria all'università di Cassino e Lazio meridionale -. Si tratta di un nuovo modello di competitività, supportato anche dagli indirizzi di politica comunitaria che alimentano circuiti di produzione-consumo sempre meno convenzionali». Proprio grazie a questi strumenti economici messi in campo dall'Ue oggi è più facile cominciare questa avventura. «Si va dalle misure che finanziano investimenti strutturali a quelle che incentivano l'adozione di pratiche agricole sostenibili e multifunzionali va avanti l'esperto -. Ma un problema esiste ed è legato alla propensione a consumare queste politiche, che spesso viene frenata da una serie di ostacoli e barriere che ne limitano il potenziale».

Attenti e creativi

Al di là della burocrazia, per cominciare un'attività del genere occorre una profonda conoscenza della materia, così come degli strumenti a disposizione per trasformare una start-up in un'impresa di successo. «Innanzitutto è fondamentale un buon business plan. Poi servono molta pazienza, un buon capitale iniziale e credibilità bancaria. Il costo di avviamento medio può variare fra poche migliaia di euro, se si dispone già dei terreni e delle strutture, a milioni di euro se si avvia un grossa produzione zootecnica da zero» precisa Fiorillo Vitaliano, direttore del programma Agribusiness management development della Sda Bocconi. «Molti investimenti e costi di avviamento vengono coperti dai fondi europei ma tutti prevedono un rimborso a lavori finiti, da qui la necessità di avere le spalle un po' coperte». Nel frattempo gli addetti ai lavori chiedono più attenzione da parte dello Stato. «L'Ue e le istituzioni nazionali, comprese quelle bancarie, hanno un atteggiamento che sembra ostile e prevenuto nei confronti delle start-up. Ma non è un problema di genere conclude il docente -. Si tratta di voler garantire il ritorno dei fondi erogati, ma sicuramente un approccio collaborativo faciliterebbe le cose: se il rischio risiede in un business plan troppo creativo e ottimista bisogna aiutare gli imprenditori a renderlo più realistico. È un vantaggio per lui e per chi eroga i soldi. Per quanto riguarda il genere, forse le giovani imprenditrici sono in qualche modo meglio accettate rispetto agli uomini, statisticamente più inclini al rischio e alla frode.

Ma naturalmente non esiste alcuna evidenza scientifica».

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