Cultura e Spettacoli

Douglas Gordon nel labirinto delle immagini

Al Mart le opere dell’artista scozzese che gioca sul rapporto fra spazio e tempo

Una bocca spalancata dall’orrore invade lo schermo. È lunghissimo l’urlo di Janet Leigh in Psycho, il film di Hitchcock dilatato dall’artista scozzese Douglas Gordon fino a coprire l’intera durata di un giorno: 24 Hour Psycho (1993). È una delle opere, forse la sua più famosa, di Douglas Gordon, vincitore del Turner Prize nel 1996, del Premio 2000 della Biennale di Venezia nel ’97, dell’Hugo Boss Prize nel ’98, alla sua prima personale in un museo italiano, il Mart di Rovereto, a cura di Mirta D’Argenzio e Giorgio Verzotti. Le prime operazioni artistiche di Gordon sembrano avere come matrice l’arte concettuale, ma se ne distaccano perché sono sempre legate al contesto, allo spazio, alle relazioni. Nel 1999 separa fotogrammi pari e dispari di un film di Otto Preminger e li proietta in un dittico con un minimo scarto temporale tra una sequenza e l’altra. Nello stesso anno realizza un video con la famosa sequenza di Robert De Niro allo specchio in Taxi Driver. Tutti lavori basati su divisione e moltiplicazione dello schermo. Play Dead; Real Time (2003) ci mostra un elefante ammaestrato che «fa il morto» ripreso da una videocamera in continua rotazione e proiettato su due grandi doppi schermi e un monitor posato a terra. Mentre lo spettatore è avvolto e coinvolto nello spazio il grosso animale sembra levitare.
Al Mart, Gordon realizza anche un’opera appositamente per uno spazio dell’edificio: il doppio corridoio circolare che, nel progetto di Mario Botta, collega il mezzanino con il secondo piano sede della collezione permanente. L’opera è ispirata all’idea architettonica del panopticon, una struttura dove si può continuamente essere osservati e controllati e perciò usata in prigioni e manicomi. «Quando ho visitato il museo ho visto qualcosa di molto famigliare: il giro a trecentosessanta gradi. Ho studiato a Londra all’University College fondato dal filosofo Jeremy Bentham, l’inventore del panopticon - dice Douglas Gordon -. Ho pensato che quello era uno spazio che non piaceva a nessuno usare e quindi era perfetto per me. È come un labirinto aperto, non sai mai dove sei, ma sai che ci sei». Le frasi scritte in diversi caratteri, grandezze, colori, grafie sulle pareti di questo anello che affaccia sulla grande rotonda, un atrio e una piazza al tempo stesso, sono già state usate in precedenti lavori di Gordon. «Ma anche prima che le usassi io le frasi erano già nell’aria». Si tratta infatti di proverbi modificati, modi di dire o frasi di uso comune, già ascoltate o che si sarebbero potute ascoltare prima, dove il semplice spostamento di una virgola crea uno slittamento del senso, una ripetizione differente. Le proposizioni, alcune delle quali appaiono a rovescio, sono per la prima volta tradotte in italiano. «È come una radio dove trovare la frequenza», dice l’artista.

La pratica del wall text, delle frasi scritte sul muro, tipica dell’arte concettuale, viene resa inedita dalla reale esperienza dello spazio, interno ed esterno, che facciamo nel nostro percorso tra parole.

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