Roma

Due Shakespeare, due Lavia

Si rassomigliano nel fisico, nel portamento, nella voce. E, sebbene recitino in modo diverso, tradiscono volentieri la loro reciproca familiarità. Tanto più che hanno fatto un bel pezzo di strada artistica insieme e, padre e figlio nella vita, lo sono stati anche sul palcoscenico, in un pregevole allestimento de L’Avaro di Molière (era il 2003) che ha confermato il talento (anche registico) del primo e sdoganato una volta per tutte quello del secondo.
Gabriele e Lorenzo Lavia si ritrovano adesso, per un bizzarro gioco del caso, a debuttare entrambi martedì prossimo in due importanti teatri romani, rispettivamente il Quirino e l’Argentina, con la ripresa di due lavori già passati per Roma la scorsa stagione che, altra curiosa casualità, attingono entrambi all’inesauribile repertorio di Shakespeare. Lavia senior torna infatti a vestire i panni del sanguinario Macbeth nell’omonima tragedia scozzese (una delle più scure e barbare del drammaturgo inglese), qui da lui stesso diretta e sospinta sui binari di un grottesco decadente e contemporaneo dai contorni nettamente meta-teatrali, quasi si trattasse di un’inquietante recita del potere dove gli eccessi non solo sono ammessi ma risultano necessari (si vedano, ad esempio, le cupe soluzioni sceniche adottate e l’immaginario femminile incarnato da una Giovanna Di Rauso/Lady Macbeth quanto mai androgina e marionettistica). Lavia junior è invece alle prese, sul palcoscenico dello stabile capitolino, nel funambolico ruolo di Benedetto, con una commedia lieve ma spumeggiante, ingarbugliata ma geometrica, arguta ma sentimentale, giocosa ma filosofica quale Troppo rumore per nulla, anch’essa sorretta dal disegno registico di papà Gabriele e affidata a un team di interpreti molto in sintonia tra loro e capaci di energico istrionismo (citiamo almeno Pietro Biondi, Giorgia Salari, Federica Di Martino, Andrea Nicolini). Quest’opera parla ovviamente di schermaglie amorose (con l’immancabile prontuario di rivelazioni, equivoci, ostacoli, agnizioni previsto nella migliore tradizione comica) e verte su un linguaggio licenzioso e arguto che fa del motto di spirito e del gioco di parole i suoi punti di forza. Il tutto incasellato in una scena pressoché vuota dove l’uso delle maschere e il continuo contrappunto musicale contribuiscono a mostrare, nella semplicità, un pedissequo lavoro di artigianato teatrale.
Si tratta, dunque, di due allestimenti di segno quasi opposto: due lingue sceniche differenti che si rivolgono entrambe, però, a un pubblico quanto mai vasto.

Perché - e padre e figlio lo sanno bene - il teatro deve sempre poter parlare a tutti.

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